Sci-fi distopica tratta da una trilogia di libri «per ragazzi», con un’eroina guerriera e la minaccia di un governo totalitario. Il progetto di Divergent, adattato dal primo volume del ciclo di romanzi di Veronica Roth, è quello di un secondo Hunger Games, e il film di Neil Burger non prova nemmeno a nasconderlo. Sullo sfondo dello skyline di una Chicago postapocalittica, è ambientato in una società del futuro organizzata – anche cromaticamente- secondo cinque fazioni diverse: i candidi (vestiti di bianco: dicono sempre la verità quindi sono incaricati delle leggi), i pacifici (rossi: rifiutano la violenza a coltivano la terra), gli abneganti (grigi: sono altruisti e quindi governano) e gli intrepidi (neri: sono i guerrieri che proteggono tutti gli altri). Invece del solito prom (il ballo del liceo…), il rito di passaggio di ogni sedicenne di questo futuro dal look piuttosto deprimente è un test attitudinale in cui, grazie a macchinari che leggono la mente e il cuore, a ognuno dei ragazzi viene prima comunicata la fazione naturale d’appartenenza e poi chiesto di scegliere quella in cui vogliono vivere veramente. Si tratta di una scelta irreversibile perché, dopo i sedici anni, cambiare fazione è impossibile.

Figlia di Ashley Judd e Tony Goldwyn (entrambi con l’aria un po’ persa), Beatrice (Shailene Woodley, teen ager ribelle in Paradiso amaro di Alexander Payne) è cresciuta trai i miti, saggi, abneganti ma ha sempre guardato con grande desiderio gli intrepidi, che sono effettivamente molto più sexy. È a loro, infatti, che decide di unirsi al momento della grande decisione, con orrore dei suoi genitori e suscitando la curiosità di Kate Winslet che è un alta funzionaria degli eruditi.

In realtà, Beatrice –nome da intrepido «Tris»- non è né un’altruista né una guerriera, bensì una divergent, una rara combinazione di tutte le qualità in cui è divisa la popolazione. La cosa ne fa un’inassimilabile, quindi una potenziale ribelle. I divergent sono infatti considerati pericolosissimi e, se scoperti, vengono uccisi sommariamente.

Dietro alla presunta armonia raggiunta grazie al sistema a cinque fazioni/colori si nasconde infatti il seme di un ennesimo regime che reprime il pensiero e le libertà degli individui. La fantapolitica di Veronica Roth è molto più rozza e meno immaginifica di quella di Suzanne Collins. È anche molto meno in sync con e interessata al rapporto tra adolescenza e fantasia. La sua visione riduttiva dell’intelletto (un pericolo, gli eruditi si rivelano cattivissimi), del pacifismo (carne da macello), della legge (un branco di petulanti) e della guerra (un gioco da ragazzi, e un buon modo di caricare un fidanzato cool) ricordano un comizio di Sarah Palin più che uno squarcio alla Philip K. Dick. Nel 2002, in Interview with the Assassin, Neil Burger aveva immaginato un’intervista con «il vero» assassino di John Kennedy.

Nel suo Limitless (2011), grazie a una droga misteriosa, Bradley Cooper diventava troppo intelligente per il suo bene e vendeva l’anima a Robert De Niro. Rispetto a quei due film, la paranoia di Divergent sembra molto più «di commissione». E un visionario dell’azione Burger certamente non è. Divergent sarebbe un film molto migliore se esibisse con orgoglio il suo lato di serie B, camp. Uscito il 21 marzo in Usa, ha finora incassato più di 96 milioni. Ma la rivoluzione di Katniss non ha nulla da temere da quella di Tris. Non solo Collins è una scrittrice molto migliore di Roth, rispetto a Jennifer Lawrence, Shailene Woodley è una guerriera abbastanza esangue.