Il nuovo film di Michele Placido è un film ignobile. E lasciamo stare, che sarebbe comunque importante, il piano cinematografico, con le accelerazioni tipo maldigerita Mtv anni 90, gli attori a livelli imbarazzanti – Ambra Angiolini e Raoul Bova nei ruoli da protagonisti che pure altrove hanno dato prove migliori- l’uso della musica. Tutto questo basterebbe a renderlo «semplicemente» uno dei molti film senza qualità, italiani e non che capita di vedere. Ma no. Ciò che lo differenza è l’approccio alla sua materia narrativa, il «contenuto» come si diceva un tempo, che poi sta già nella forma, la sua fase suprema, nel retrogusto volgare di alcune scelte (il bianco e nero nella scena di sesso tra moglie e marito per dirne una), e dunque non dovremmo sorprenderci.

La scelta, traduzione al presente dello «scandaloso» testo teatrale di Pirandello (sceneggiatura dello stesso Placido insieme a Giulia Calenda) L’innesto, risolve in un solo colpo i problemi della fecondazione assistita (e pure della 194) con l’ossessione della maternità che per la donna protagonista è tale da permettere tutto, anche lo stupro. Anzi visto che «una donna e un uomo senza figli si guastano» lo stupro diviene la soluzione. Anche se (o forse per questo) la parola «stupro» nel lessico di Placido non esiste, difatti la protagonista stuprata riuscirà a non farne menzione – e con lei tutti gli altri, familiari, poliziotti praticamente per l’intero film. La storia è quella di una coppia, lei figlia della buona borghesia pugliese che insegna musica ai bambini, lui (Bova) cuoco magnifico che gestisce un ristorante, si amano e vorrebbero un figlio che però non arriva.

Finché un giorno mentre lui a casa prepara ostriche (a proposito di metafora) e vino bianco, lei viene agguantata da una mano che sbuca dal muro rotto del vecchio vicolo di un quartiere pericoloso – «Possiamo dire che in quel posto ci sono state violenze» scandirà al marito desideroso di cancellare i dubbi il commissario, unico accenno alla cosa -viene stuprata e derubata. Però non denuncia la violenza, o meglio neppure la nomina: arriva a casa con la faccia tumefatta, raccolta in strada dal commissario, lo stesso Placido, il cui figlio è suo allievo di musica, e si chiude in bagno. Doccia immancabile, un po’ di spot da violenza sulle donne, Laura (Angiolini) si rifugia in campagna nella casa di infanzia che le ricorda l’amatissimo padre musicista – fantasma maschile appena accennato – e da cui la madre l’ha strappata.

Tutti la spingono a vedere un medico, la madre, la sorella (Solarino), preoccupate che non si sappia nulla, che però non si prenda una malattia per la sua sicurezza, e per quella del marito Giorgio (Bova). Lei rifiuta, ostenta serenità sulla lama dell’isteria. Fin qui siamo nella cultura che ancora domina, che a tante fa vivere lo stupro con vergogna, le donne vengono colpevolizzate o spinte a colpevolizzarsi. Placido però non prende spunto per indagare questo femminile massacrato, l’ansia, la paura, il disgusto per il corpo, le lacerazioni emozionali più dolorose di quelle fisiche. Laura al marito che l’allontana, e scruta i suoi lividi con angoscia, regala dolcezza, sensualità, lo corteggia, seduttiva e ammiccante. I due fanno l’amore come mai prima (il bianco e nero di cui sopra, in macchina davanti alla masseria) finché lei si scopre incinta. Figlio dello stupro. No mio, anzi nostro, «il nostro bambino». Il marito rifiuta, chiede il dna, le chiede di abortire ma lei La scelta del titolo l’ha già fatta. Non si guasterà – e difatti dal lettino dell’aborto fugge – e nemmeno lui, avranno il figlio che lo «guarderà negli occhi» pur non riconoscendosi.

L’innesto – con palese riferimento al lessico botanico, dell’innesto sulla pianta perché germogli (a proposito di donne) – è datato 1917,all’epoca venne molto criticato, forse perché con questa sua «provocazione« toccare nel profondo le relazioni di potere tra uomo e donna, i ruoli, i codici d’onore, la virilità e la femminilità, una sorta di danza che muta i caratteri del tutto assente nella lettura di Placido. Quella che è la ferita maschile, il tarlo del marito -«hai premeditato di fare sesso in quei giorni per confondere le acque» diviene un po’ la lente attraverso la quale ci viene presentato il personaggio della protagonista, nel quale appunto l’esaltazione della maternità mette da parte il trauma della violenza. Solo un accenno nella confidenza al collega un po’ innamorato di lei, e quel sentivo qualcosa dentro di me che è cambiato sul filo della confusione tra la gravidanza e la violenza sessuale. Il personaggio femminile ci appare come un’isterica, e terribile è questa visione della maternità nella quale la violenza si cancella in nome della vita. Aiuto.