L’Italia, si sa, è un Paese per vecchi. Da anni le statistiche Istat raccontano ogni mese la stessa mesta storia: quel pochissimo di lavoro in più che si trova va a unico vantaggio degli ultracinquantenni. Con sullo sfondo una simile realtà è inevitabile ritrovarsi a riflettere su un libro come il primo romanzo di Bifo, al secolo Franco Berardi, scritto a quattro mani con Massimiliano Geraci.

SIN DAL TITOLO, Morte ai vecchi, (Baldini&Castoldi, pp.361, euro 16), quel libro sembra rinviare a un conflitto generazionale di stampo ben diverso da quelli che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso.
Il libro sfodera in effetti un versante satirico in puro stile Burroughs per azzannare gli ex giovani ribelli che rifiutano caparbiamente di rinunciare alla loro ormai vetusta centralità. Ma Bifo e Geraci sono troppo sottili per voler raccontare solo una guerra generazionale «a parti rovesciate», con gli incanutiti babyboomers, un tempo protagonisti della rivolta giovanile, diventati ingombranti bersagli dei giovani a cui rubano il presente.

Lo scarto generazionale è il fulcro di una narrazione vastissima e ambiziosa, che mira a raccontare il presente nella sua complessità e squaderna una quantità impressionante di richiami, citazioni e suggestioni pescate non a casaccio nella cultura degli ultimi due millenni, e non solo in quella occidentale egemone. Ma qui lo scarto non è più tra due generazioni, ma tra soggetti antropologici diversi, tra due dispositivi di approccio al mondo e percezione del mondo opposti.

LA MENTE E L’ANIMA dei ragazzi nati nell’universo della rete sono diversi da quelli delle generazioni precedenti. È diversa la comunicazione interpersonale, stravolto il senso del tempo, rovesciato il rapporto tra l’attimo presente puntiforme e la sua collocazione nella linea del passato e del futuro, alterata la dimensione corporea dell’esistenza.
I due autori non si limitano a descrivere ciò che non è più solo uno slittamento, come altri se ne sono dati nel corso del tempo, ma rappresenta già una vera e profondissima frattura. Affidano invece a un vertiginoso salto stilistico, probabilmente dovuto a una precisa divisione dei capitoli, il compito di illustrare la siderale distanza. Quando in campo ci sono i vecchi la narrazione è piana e lineare, quando i giovani li sostituiscono s’imbizzarrisce, spezza le convenzioni, ignora la punteggiatura, irride la coerenza del racconto.

IN QUESTA STORIA che è insieme sci-fi cyberpunk, analisi sociologica, testo politico ma in senso tanto lato che rischia di sfuggire anche al secondo sguardo ed esercizio di stile postmoderno, la divaricazione generazionale è in tinta rosso sangue. I vecchi vengono all’improvviso macellati per strada, in una strage sempre più immane. Omicidi prima, poi vere e proprie stragi di massa. Non è un massacro consapevole. I giovani assassini si muovono danzando in sciami, ammazzano e squartano in stato trance. Come nell’indimenticabile Pianeta proibito, qualcosa è andato storto quando una multinazionale ha messo in commercio un chip, ricavato dal furto dell’antica sapienza sciamanica dei Jivaros amazzonici: doveva garantire a tutti una felicità empatica, lo stato di grazia. Ha innescato la mattanza, anzi la «Geriatromachia», come avrebbe dovuto chiamarsi inizialmente il libro.

E TUTTAVIA non c’è nessuna demonizzazione della tecnologia, nessuna nostalgia per i bei tempi andati. Emerge casomai la matrice operaista di Bifo, con il comando sulla tecnologia come posta in gioco di un conflitto a venire che non sarà generazionale ma a modo suo ancora di classe.