A proposito de Il leopardo che mangiava uomini di Jim Corbett (1875-1955), Ernest Hemingway ha scritto: «È il più bel libro di cacciatori e cacciati che io abbia mai letto. È scritto così bene e con tale fedeltà che ti sembra di averlo vissuto. Vi è in esso bellezza, terrore, verità». Corbett, cacciatore solitario, nel libro pubblicato nel 1948, racconta come, tra il 1925 e il 1926, dopo mesi di appostamenti a quell’unico leopardo e senza mai tirare ad alcuno degli altri leopardi della zona, lo abbia infine colpito a morte liberando dal terrore gli abitanti di quelle valli.

«La prima vittima umana che si attribuisce al leopardo antropofago di Rudraprayag (nella regione indiana del Garhwal, alle pendici dell’Himalaya) si ebbe, scrive Corbett, nel villaggio di Bainji il 9 giugno 1918, e l’ultima vittima di cui lo si rende responsabile nel villaggio di Bhainswara il 14 aprile 1926. Nel periodo di tempo che corre fra queste due date, il numero delle vittime umane registrato dal Governo fu di 125». L’ambito della estenuante battuta è costituito da precisi tragitti. Corbett ci dice che «i leopardi hanno zampe delicate e si tengono, per quanto possibile, sui sentieri e sui passaggi frequentati anche dai cacciatori». E, di regola, tornando sui medesimi transiti, come ammonisce l’antica esperienza dell’arte venatoria, se già Senofonte nel Cinegetico avverte, trattando delle prede braccate, che esse saltano «più volte lungo e attraverso gli stessi punti, e le loro impronte si sovrappongono». Dotati di vista e udito acutissimi, ma debole assai l’olfatto, i leopardi sono predatori notturni.

Così è la notte che fascia la trama della vicenda, la permea in ogni sua parte, sia nella dimensione figurativa della narrazione, sia nel particolare tono emotivo che l’azione, con i suoi presupposti terribili e drammatici, comporta. E solo agisce, nella notte deserta, Corbett. Mandriani e pastori, accanto agli animali riparati nei ricoveri o difesi negli stazzi circondati di siepi spinose, distillano nei rumori usuali della foresta la certezza a che tutto trascorra verso un’alba rasserenatrice. Ma nessuno nel corso della notte è esente da pericolo, e l’apparenza d’un suo ordinato svolgersi può celare il silenzioso agire della belva. Essa colpisce le sue vittime senza consentir loro un grido; ne soffoca l’estrema invocazione d’aiuto e, più d’una volta, sono i rumori ordinari – un cigolio sommesso, una stoviglia urtata, una stoffa che fruscia – che, invece di segnalare il passo del leopardo, lungi dal suscitare allarme, ne schermano il movimento, ne felpano l’incedere. L’aurora solleva dal cruccio molti inquieti che han trascorso la notte in apprensione e talora rivela con la prima luce l’orrore compiuto.

Lo premonisce in un’anta ora macabramente socchiusa che fu serrata ier sera; nella stilla di sangue su un filo d’erba innanzi alla capanna, prima d’esibirlo nell’atroce immobilità dei resti abbandonati, nel corpo scempiato della preda. Dentro l’arco della notte il leopardo si staglia come una presenza sacra nell’animo degli abitanti di Rudraprayag. Ogni ombra è un muscolo della belva tesa a balzare su di noi, lo stormire di un ramo il suo soffio fatale. Nella notte si cela un dio, dalla tenebra prende forma la divinità che colpisce, come nel buio s’agitano e acquistano corpo gl’incubi: «Mentre vegliavo una notte dopo l’altra mi accadeva di immaginare – dice Corbett – che l’antropofago fosse un grosso animale di colore chiaro, col corpo di leopardo e testa di demonio. Un demonio che, guardandomi nelle lunghe ore di veglia notturna, si rotolava per terra in attesa del momento in cui, cogliendomi alla fine indifeso in un istante di disattenzione, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione per affondarmi i denti nella gola!». La fatale partita a due innesca il dispositivo che, accostando i due fino alla propinquità, consentirà ad uno di assestare il colpo risolutivo. «Si vince la forza selvaggia delle fiere, scrive Platone (Leges 824), con la vittoria di un’anima perseverante, con le proprie forze fisiche: i cacciatori che cacciano di propria mano, che coltivano in sé il divino coraggio, cacciatori veramente sacri».