Sei secoli prima della pubblicazione di «Pinocchio» e settecento anni prima che Bruce Willis si immolasse per salvare la terra da un’hollywoodiana «Armageddon», in Medio Oriente Ibn al-Nafis produceva il primo libro di formazione e probabilmente il primo volume di fantascienza che la letteratura ricordi.

Nato a Damasco, medico, uomo di scienza e scrittore, al-Nafis alla fine del XIII secolo pubblica «Theologus Autodidactus», la storia del piccolo Kamil misteriosamente residente nella grotta di un’isola sconosciuta, completamente solo e, per mera necessità, autodidatta. Tornato alla civiltà grazie alla barca costruita alla bell’e meglio da dei naufragi, continua il suo personale percorso alla scoperta del mondo, della filosofia, della fede.

ARMAGEDDON E RESURREZIONE E se Ibn al-Nafis ambiva ad esaltare il ruolo della religione nella formazione dell’uomo, conclude il libro con richiami che oggi diremmo fantascientifici: armageddon, resurrezione, un futuro immaginifico che stravolge le coordinate del presente.

Nasce forse lì, da quel primo seme, il filone sci-fi nel mondo arabo. Oggi viene riscoperto grazie a decine di artisti, pittori, scrittori, registi che dal Golfo all’Egitto intrecciano la realtà attuale con mondi futuristici. Ma neanche troppo, e in questo sta la particolarità della fantascienza araba: in Medio Oriente è la realtà che supera la fantasia. E allora raccontare l’Egitto, la Palestina, gli Emirati Arabi del futuro si trasforma in un processo di analisi dell’attuale, di contraddizioni intrinseche e conflitti occulti e palesi. Alla radice sta il mondo reale che si dipana di fronte all’artista sotto forma di territori divisi, collegamenti geografici a tre dimensioni, tecnologie belliche e distruzione da fine del mondo.

La visualizzazione del futuro non è che l’analisi della realtà. Tra le più creative menti mediorientali c’è Larissa Sansour: artista palestinese di Gerusalemme, mescola da anni stili diversi per raccontare il suo popolo dell’oggi, dello ieri e del domani. Foto, video, installazioni hanno già girato mezzo mondo proponendo visione fantastiche e futuristiche, ma radicate nel presente.

Prendiamo «Nation Estate», short film di 9 minuti accompagnato da una galleria fotografica in cui la soluzione distopica alla questione palestinese è un grattacielo, un palazzo colossale in cui risiede l’intera popolazione. Una soluzione verticale che sfida quelle a due Stati, a uno, a tre: ogni piano è una città, ogni comunità collegata da un asettico ascensore.

IL MURO IN VERTICALE Fuori dalla finestra si vede il muro, inquietante e fissa presenza che continua a separare da un mondo luminoso. Il grattacielo è bianco e impersonale, lontano anni luce dagli odori, i colori, i rumori della quotidianità araba. La realtà è sostituita da immagini computerizzate, musiche elettroniche che reinterpretano le melodie arabe. Ma il gioco artistico non è onirismo, la distopia non è irrealistica. Sul terreno Israele sta già realizzando una soluzione simile, un’occupazione tridimensionale in cui il collegamento tra le comunità palestinesi non avviene più in orizzontale: sarà sotterraneo o elevato da terra, via tunnel e ponti, un sistema contiguo ma non continuo in cui la terra – e dunque l’identità – diventano punti che si toccano ma non si permeano.

Altrettanto reale è l’ultimo lavoro della Sansour, «They ate from the finest porcelain»: una futuristica torsione temporale che racconta il tentativo di un gruppo underground di resistenza narrativa di imporre alla Storia un futuro che non gli appartiene, creando un deposito sotterraneo di porcellane che finga l’esistenza di una civiltà.

La generazione artificiale di un mito (tra atmosfere cupe, bombe che cadono morbide dal cielo e immagini opache di archivio) impone il concetto di archeologia fantascientifica, la stessa che i palestinesi imputano a Israele. Distorcere la Storia tramite un’archeologia ideologica è il processo in atto a Gerusalemme come sul Mar Morto e Larissa lo racconta ammantandolo di futuro che solo in superficie può risultare, infine, fantascientifico.

DISTOPIE SROTOLATE Così il filone sci-fi viene srotolato in un mondo arabo in cui contraddizioni, sovrapposizioni e narrative distopiche sono alla base della quotidianità delle pratiche. «In Medio Oriente non esiste logica», è la frase che chi viaggia per queste terre si sente ripetere.
Allora l’arte non può che rispecchiare l’apparente illogicità e oggi lo fa sfruttando strumenti nuovi. In pochi anni le petromonarchie del Golfo hanno calamitato l’attenzione dei pubblici occidentali con una serie di festival che fanno da palcoscenico a letteratura, film horror, installazioni, fumetti: «Middle East Film and Comic Co» di Dubai, il «Shubbak Festival» ospitato a Londra, l’«Emirates LitFest» negli Emirati. Dagli Alieni che invadono la Terra e combattono una guerra cosmica con i Geni (tradizionale maschera araba) a una giovane extraterrestre che fugge alla distruzione del suo pianeta, fatto d’acqua, per mettere in salvo la figlia. Acqua, pianeti sconosciuti e mondi ipermoderni sono gli ingredienti di una ricetta che l’arte porta agli estremi ma che è già propria del Golfo: una realtà che intreccia la tecnologia al conservatorismo soffocante, il consumismo occidentale alla repressione delle voci critiche, la globalizzazione del lusso a diritti da ultimo mondo. Il Golfo è un paradosso in sé, una finzione, un deserto su cui si ergono città innaturali, boschi di grattacieli innaffiati da fiumi d’acqua che non esistono, un futuro distopico che è inquietante realtà.

BATTAGLIE COSMICHE E così alieni e battaglie cosmiche rispecchiano le lotte quotidiane di una popolazione soffocata che oltre il confine è in guerra aperta. A narrarla sono insetti psichedelici, statue parlanti e dittatori tecnofobici, protagonisti grotteschi dell’Iraq del 2103: «Iraq+100» è una delle opere più interessanti, antologia di racconti che immaginano il paese tra un secolo partendo dai conflitti decennali che lo attraversano e dalle esperienze di fuga e repressione che gli stessi autori hanno vissuto sotto Saddam, sotto l’invasione Usa e oggi sotto l’occupazione islamista.

Come la Palestina anche l’Iraq è così intriso di un destino di negazione da diventare – agli occhi di un artista – il teatro perfetto della narrazione distopica. Non a caso nel 2014 il romanzo vincitore del noto premio internazionale per la Fiction Araba è stato assegnato all’incredibile «Frankenstein in Baghdad» di Ahmed Saadawi. Un horror quasi gotico, che segue sottotraccia il predecessore a cui si ispira ma che esplode nella distruzione del Ventunesimo secolo. Esplosioni vere, reali, intorno alle quali un uomo misterioso si aggira alla caccia di pezzi di corpi, resti umani con cui creare il suo mostro e imbastire la vendetta. Prima passa il kamikaze e poi lo straccivendolo, ormai incubo della popolazione della capitale al pari degli attentatori suicidi.
Baghdad è l’inferno e Frankenstein non le permette di sognare alcun purgatorio. Sono gli anni dell’invasione Usa, degli abusi delle truppe statunitensi e dell’avanzata di al Qaeda, gli anni delle divisioni settarie e degli attentati quotidiani. Anni immorali su cui l’autore non commenta, ma lascia ai resti umani raccolti per la strada il giudizio storico sull’uccisione dell’Iraq.

Lo stesso fa «Otared», terzo romanzo dell’egiziano Mohammed Rabie, ambientato nel Cairo del 2025. Racconta di un omicidio brutale in una città divisa che ha lasciato alle spalle la rivoluzione. C’è Il Cairo Est, occupata dai cavalieri di Malta, e c’è Il Cairo Ovest dove a comandare è la polizia egiziana. I poliziotti sono la resistenza, una resistenza a testa in giù, capovolta e corrotta il cui nazionalismo patriottico si esplica nella violenza gratuita. L’anti-eroe del romanzo è un cecchino che uccide da una torre, indiscriminatamente e senza soluzione di continuità, e con cui Rabie commemora le vittime di piazza Tahrir nel 2011 e quelle di Rabi’a nel 2013, per mano dell’esercito di al-Sisi. Mondi distopici e futuristici che sono le lacrime arabe per una realtà che non cambia ma si rigenera in una modernità di oppressione e violenza.