Si possono leggere tanti messaggi dietro la distruzione della Grande Moschea al-Nuri nella città vecchia di Mosul. Nel rimpallo di responsabilità – per lo Stato Islamico a ridurla in macerie è stato un raid della coalizione a guida statunitense, per il governo centrale di Baghdad è stato l’esplosivo piazzato dai miliziani in fuga – c’è informazione di guerra.

Al momento, di certo, ci sono le dolorose rovine della moschea, 900 anni di storia, e del suo minareto, al-Hadba, chiamato dalla gente «il gobbo». Fu eretta nel 1172 da un nobile locale e governatore della città, Nuruddin al-Zanki, combattente durante le prime crociate. Ieri internet ha fatto da tela alla rabbia e al dolore degli iracheni, increduli per una perdita immensa.

«UN CRIMINE DI GUERRA contro Mosul e tutto il popolo iracheno», lo bolla in una nota il capo delle operazioni militari a Mosul, il generale Abdulamir Yarallah.

Un crimine simile ai tanti commessi in questi tre anni dallo Stato Islamico tra Siria e Iraq con la distruzione di patrimoni unici, storici e architettonici, che rappresentavano la ricchezza millenaria della Mesopotamia, riletta dall’Isis come la storia dei miscredenti che hanno attraversato questi luoghi.

In un comunicato pubblicato sulla propria agenzia stampa, Amaq, lo Stato Islamico imputa ai bombardamenti Usa la distruzione di al-Nuri, luogo estremamente simbolico: fu qui che, esattamente tre anni fa, alla fine di giugno del 2014, Abu Bakr al-Baghdadi si mostrò per la prima e ultima volta per dichiarare la nascita del «califfato».

DIVERSA L’INTERPRETAZIONE irachena e statunitense: il comando centrale Usa nega di aver condotto raid mercoledì sera nel centro di Mosul e il premier al-Abadi incolpa l’Isis in fuga definendo la devastazione della moschea «l’ufficiale dichiarazione della sconfitta dell’Isis». Daesh l’ha ridotta in macerie, dunque, per ammettere di aver perso, di aver fallito nell’obiettivo della creazione di uno Stato, con territori e confini definiti, con un’amministrazione centrale e un’intepretazione deviata della Shari’a come fonte del diritto.

I SOLDATI IRACHENI erano ormai prossimi alla moschea, a 50 metri, stavano per prendere il simbolo della statualità dell’Isis.

Che ora è scomparso, a tre-quattro giorni dalla fine del mese sacro di Ramadan (altro momento altamente simbolico per un’eventuale liberazione) e nella notte di Laylat al-Qadr, la più sacra per l’Islam, la «notte del potere» in cui Maometto ricevette il Corano da Dio.

LA LIBERAZIONE è comunque imminente: poche sacche di islamisti resistono nella città vecchia, assediando con la loro presenza circa 100mila civili. Ma la definita sconfitta dell’Isis non passerà per la perdita di Mosul né tanto meno per la scomparsa della Grande Moschea al-Nuri.

Esperti e osservatori ieri leggevano nella sua distruzione – acccreditando l’ipotesi dell’implosione architettata dallo Stato Islamico – un messaggio agli adepti e ai membri del gruppo, fuori e dentro i confini di Siria e Iraq. Dopotutto incendi, esplosioni, devastazioni lasciate dietro di sé con l’avanzare del nemico hanno costellato la storia.

E la distruzione della moschea non sarebbe altro, in tal senso, che un ordine ai propri miliziani, andate e distruggete, lasciate solo rovine nei luoghi dove lo Stato Islamico è stato aggredito.

MOSUL SARÀ LIBERATA, come lo sarà Raqqa. Ma l’Isis, difficilmente, si ridurrà ad una parentesi: il messaggio messianico sollevato, la potenza finanziaria e militare, le moderne forme di propaganda di una narrativa deviante e ultraconservatrice capace però di «dare un’identità» a chi non ne sente più una, tra stati falliti in Medio Oriente e esclusione sociale in Europa, permarranno per lungo tempo.
Al-Nuri è stato un passaggio, sacrificato. Non intaccherà la rete Isis, come probabilmente non la intaccherà nemmeno la morte – per ora non confermata – del suo «califfo».