Il primo grande ciclo del Marvel Cinematic Universe si chiude dopo ben 21 film. Iniziato nel 2008 con Iron Man, il Mcu è diventato un genere a sé stante. Film dopo film Kevin Feige, l’architetto supremo dell’universo Marvel cinematografico, ha composto un mosaico complesso e affascinante che è andato configurandosi come una vera e propria nuova continuity (l’insieme degli eventi che costituiscono la narrazione delle gesta degli eroi creati da Stan Lee in collaborazione con Jack Kirby, Steve Ditko e altri ancora). Il Mcu, infatti, rispetto alla continuity classica e Ultimate si presenta come una rifondazione ibrida in grado di reinventare personaggi ma, soprattutto, (continuare a) interfacciarsi con gli Stati uniti e le loro problematiche. In questi undici anni sono tramontate le due presidenze Obama mentre Trump (il primo presidente «bianco» secondo Ta-Nehisi Coates) ha riportato indietro gli orologi della politica. Inevitabilmente il Mcu è stato lo specchio di queste trasformazioni (gli indizi sono disseminati ovunque e chissà che un giorno non si provi a sistematizzare questo racconto «segreto» ma alla luce del sole della politica statunitense).

«AVENGERS: INFINITY WAR», girato contemporaneamente con Avengers: Endgame, finiva con Thanos entrato in possesso delle sei gemme dell’infinito (Tempo – verde; Anima – arancione; Spazio – blu; Mente – giallo; Realtà – rosso; Potere – viola) che spazzava via metà dell’umanità, inseguendo un perverso piano di igiene cosmica (nei fumetti Thanos è più semplicemente innamorato della morte…). Lo shock della fine del precedente capitolo – la morte di Spider-Man e di metà dell’universo Marvel – era compensato dall’annuncio dell’imminente arrivo di Carol Danvers, ossia Capitan Marvel. Ciò che gli artefici di Avengers hanno compreso alla perfezione della lezione dei fumetti Marvel è che il lettore/spettatore è disponibile a credere a tutto se la sua sospensione dell’incredulità può essere ancorata a personaggi umanamente credibili (la mitopoiesi di Stan Lee).

Non è un caso che rispetto ai film del resto del Mcu, Endgame è il film probabilmente con meno azione, ma ogni scambio di battute fra i personaggi è assorbito con la medesima commozione con la quale il lettore leggeva le pagine scritte da Stan Lee o da Roy Thomas (geniale Thor trasformato in un Volstagg depresso in compagnia di un Taika Waititi irriconoscibile). In ogni dialogo riverbera l’umanità dei personaggi rappresentata dai poteri o dal costume come una fantasmagoria allegorica. I fratelli Russo sono perfetti nel gestire il cambio di passo dell’universo Marvel nei confronti di una sensibilità cresciuta in ambiente digitale e, soprattutto, acutissimi nel registrare come l’umanesimo utopico di Stan Lee sia diventato progressivamente un umanesimo di sinistra, berniesandersiano diremmo. Endgame è davvero la saga che Roy Thomas non ha mai scritto, John Buscema non ha mai disegnato e George Klein non ha mai inchiostrato.

THOMAS, infatti, era uno specialista nel cogliere gli eroi nei loro momenti di maggiore complessità e fragilità e solo le matite di Buscema ci ricordavano che potevano tornare grandi. Ecco: Endgame coglie gli Avengers al minimo storico. Devastati dal lutto e dai sensi di colpa. Dal fallimento. Ed è difficile resistere alla tentazione di pensare che in fondo il post-Thanos è il presente di Trump. E quando Ant-Man viene sputato fuori dalla macchina del tempo (un ratto aziona involontariamente i comandi…) il guardiano del deposito dove è custodito il furgone sta leggendo The Terminal Beach di J.G. Ballard (un’antologia pubblicata da Urania nel 1978 con il titolo Il gigante annegato). Come a dire che Avengers è una distopia. E una fantasia di riscatto. Bringing It All Back Home, come direbbe Bob Dylan. Riportare tutti a casa (anche se Reed Richards e i F4 sono ancora nel limbo delle dispute di diritti… e gli X-Men sono esiliati in un’altra major). In fondo è come se il Mcu provasse a dirci che possiamo essere migliori di Trump e dei suoi sgherri (e non si è parlato abbastanza del colpo di genio di avere trasformato gli Skrull nei palestinesi del Cosmo…). Che possiamo farcela. Ma bisogna essere determinati come «loro». Distruggere metà della vita del cosmo, come ha fatto Thanos, non appartiene alla sfera della «libertà d’espressione» ma è genocidio.

PER QUESTO motivo il finale commuove: l’altra metà del mondo (il Wakanda, le donne, gli adolescenti) contro il maschio bianco suprematista (ok: blu… come i cattivoni dei Beatles). E no: Endgame non è il trionfo delle merci come accade con i Transformers. Stan Lee vedeva le eroine e gli eroi in calzamaglia come la parte migliore di noi. Le nostre potenzialità condivise con gli altri. E Avengers: Endgame è il discorso sullo Stato dell’Unione che ci piace pensare avrebbe potuto pronunciare Stan Lee.