Nato nel 1972 a Leningrado ed emigrato a New York con la famiglia quando aveva sette anni, Gary Shteyngart ha scritto in poco più di un decennio tre romanzi e un memoir che, muovendosi tra Russia e Stati Uniti, distopia e storia d’amore, rileggono la grande tradizione dell’umorismo russo e quella della letteratura ebreo-americana dei Bellow e dei Roth. Con in più quella fusione insolita e spiazzante tra disincanto postmoderno e accensioni sentimentali che, da Wallace e Franzen fino a Beatty e Safran Foer, ricorre come una costante nella migliore narrativa prodotta negli Stati Uniti.
Non posso non partire dal suo contributo al numero del «New Yorker» nel quale diversi intellettuali e scrittori hanno espresso la propria opinione sull’ascesa di Donald Trump. Lei si è fermato, in particolare, su un importante parallelismo tra l’America di Trump e la Russia di Putin. Davvero le sue due patrie sono diventate così simili?
Quando mi sono trasferito con la mia famiglia da Leningrado a New York, Unione Sovietica e Stati Uniti erano agli antipodi. Da un lato, una povertà alimentata dal clima plumbeo di un regime, dall’altro una potenza mondiale che ostentava ai quattro venti la propria ricchezza. Oggi, più di trent’anni dopo, i due paesi si somigliano molto di più, tra disuguaglianze economiche sempre più marcate ed erosione inarrestabile della classe media. Non è allora un caso se tanto Putin quanto Trump – o meglio, Steve Bannon, il suo ideologo – abbiano sviluppato un’ideologia revanchista: Stati Uniti e Russia si ritrovano oggi uniti nel riaffermare una grandezza che sembra stabilita per decreto divino. Che si parli di Grande Madre Russia o di Sogno americano, la ricerca di un riscatto si articola lungo le stesse coordinate: suprematismo cristiano, critica della globalizzazione, protezionismo economico e rabbia contro i migranti.
Nel suo «Manuale del debuttante russo» il protagonista, Vladimir Girshkin, viene definito «al cinquanta per cento un americano funzionale e al cinquanta per cento un europeo dell’est colto che ha bisogno di un barbiere e di farsi un bel bagno», e l’intero romanzo ruota intorno a un’identità che rimane doppia e non approda, forse per scelta, a una piena integrazione. Ritiene che questa doppiezza possa essere considerata un valore?
Certo. Sono assolutamente convinto che la condizione dell’immigrato contenga un potenziale di ricchezza ragguardevole. Mi riferisco alla possibilità di attingere a due distinte tradizioni culturali, o addirittura di pensare in due lingue diverse. Quando parlo in inglese, è come se nella mia mente il russo facesse da colonna sonora, da sottofondo musicale, ed è ovviamente vero anche il contrario. È una condizione che, da sempre, ha portato frutti straordinari: basti pensare a Conrad, o a Nabokov. Ma anche, spostandoci al tempo presente, ad autori di primissima grandezza come Jumpa Lahiri o Junot Dìaz. E un’altra cosa: non tutti gli immigrati che risiedono negli Stati Uniti sono poveri, anzi: non direi che la nazionalità sia un fattore dirimente, nella distribuzione delle ricchezze, e forse è questo uno dei fattori che contribuiscono ad alimentare il risentimento delle fasce più povere della popolazione, ma soprattutto di una borghesia bianca economicamente sempre più schiacciata verso il basso.
I recensori e i critici hanno sottolineato spesso come i suoi libri si collochino, anche letterariamente, al crocevia tra tradizione russa e identità americana. La tendenza, però, è a segnalare tra i modelli russi solo i classici, e a cercare modelli contemporanei quasi esclusivamente negli Stati Uniti.
Effettivamente mi è capitato di notarlo. Credo però che dipenda, almeno per quanto riguarda i recensori americani, da una scarsa conoscenza della letteratura russa contemporanea. In ogni caso, i classici russi troveranno sempre posto, in una mia reading list ideale: e mi riferisco a Cechov, certo, come a Gogol. Ma anche a Nabokov, una straordinaria figura ponte tra le mie due culture. Tra gli americani, metto Saul Bellow e Philip Roth sopra tutti. E poi ci sono i grandi russi di oggi: Vladimir Sorokin, Viktor Pelevin, ma soprattutto un autore assai meno noto, Sergej Dovlatov, che ha scritto libri bellissimi e profetici, perfetti per comprendere, a distanza di anni dalla loro pubblicazione, tanto la Russia di Putin quanto l’America di Trump. Se devo essere sincero fino in fondo, però, la più grande influenza sulle storie che racconto e sul modo in cui le racconto l’hanno avuta i miei genitori. Quando ero bambino, e ancora per tutta la mia adolescenza, le serate in cucina erano scandite dalle loro battute fulminanti e dalle loro storielle sul Governo sovietico e i burocrati di Stato. Non ricordo nulla di più divertente.
«Storia d’amore vera e supertriste» è probabilmente il romanzo della sua piena maturità, sicuramente il meglio accolto dalla critica, che ha insistito soprattutto sull’accostamento insolito tra la rappresentazione distopica degli Stati Uniti e la dolcezza della storia d’amore che dà il titolo al libro. È stata una sua scelta calcolata?
Non saprei. Di solito, quando concepisco un romanzo, non parto da un’idea preordinata, e ogni storia assume la sua forma strada facendo. Certo, sono stati in molti a cogliere in questo mix tra distopia e storia d’amore una forte originalità, ma potrei risponderle che anche in 1984 di Orwell c’è una storia d’amore tra il protagonista, Winston Smith, e Julia, sebbene forse meno centrale per lo sviluppo della trama rispetto a quella tra Lenny e Eunice.
La tendenza a fondere un’inventiva e un immaginario di tipo postmoderno e un nuovo «sentimentalismo» è presente però in molti romanzi americani contemporanei. Penso a Wallace, a Lethem, allo stesso Safran Foer…
È possibile che questo parallelismo esista. Sicuramente non è però ascrivibile a una vera e propria «scuola letteraria», né a un movimento. Mi sembra piuttosto che questa accentuazione dell’elemento sentimentale sia concepibile come reazione nei confronti dei fenomeni a vario titolo connessi alla diffusione di Internet e dei social media. Se infatti c’è una caratteristica della rete che può davvero definirsi rivoluzionaria è quella di mettere ciascuno di noi in condizione di entrare in contatto con chiunque altro, senza però che tale contatto si spinga mai oltre la dimensione digitale. L’idea di imitare Internet e di costruire giganteschi e confusi affreschi in cui tutto si muove e si trasforma all’unisono non mi ha mai affascinato. Sono invece sempre più attratto da storie che si concentrino su due, al massimo tre personaggi, e che lavorino sulla loro interazione. Non sto dicendo, ovviamente, che la complessità del contesto possa essere ignorata, ma che è sempre necessario trovare un’intensità in grado di farle da contraltare.
Cosa ne pensa dell’Oscar a «Moonlight» e del fatto che due grandi premi come il Booker e il National Book Award siano andati ad autori afroamericani? A me è sembrata una prima reazione della cultura più progressista all’ascesa di Trump.
È probabile, ma il fatto in sé rimane positivo. Personalmente, da ebreo, da russo e da immigrato, mi sento davvero assai poco wasp, e ho molti più amici afroamericani che bianchi anglo. Per restare nel campo della letteratura, i romanzi di Beatty e Whitehead, oltre a essere ottimi libri, con una vena e delle tonalità che hanno effettivamente diversi punti di contatto con ciò che io scrivo, hanno il grande merito di richiamare l’attenzione su una ferita, quella del razzismo, che è ancora ben aperta, e che anzi, con la presidenza Obama, ha attraversato una fase di vera e propria recrudescenza.
In «Storia d’amore vera e supertriste», ma anche nel suo memoir, New York è descritta con un affetto nostalgico e una partecipazione che ha deliziato molta critica…
Beh, è normale, direi. Sono cresciuto nel Queens, ma ho fatto il liceo negli anni ottanta a Manhattan, che già allora era una città riservata quasi esclusivamente ai ricchi. Oggi, a maggior ragione, si può direche New York non esista più, nel senso che non c’è quasi più traccia di un vero tessuto metropolitano, o di rapporti sociali. La gente vive altrove e a Manhattan va esclusivamente per lavoro. Se dunque c’è nostalgia nelle mie pagine – non è lei il primo a farmelo notare, e credo a ragione – è pur sempre una nostalgia residuale per cose che non esistono più da tempo, e che appartengono all’immaginario collettivo più che a una qualunque realtà. Ciò non toglie che questa sia la mia città, e che continui a esercitare una grande attrattiva su di me. Non a caso, il romanzo al quale sto lavorando sarà ambientato proprio a Manhattan, e avrà come protagonista il direttore di uno hedge fund: un’occasione per riflettere sulle responsabilità di una classe sociale e di un mondo, quello della finanza, che in buona parte ha voltato le spalle a Trump ma che, a mio giudizio, ha responsabilità pesantissime nella sua ascesa, e nel suo successo.