Se non è un innamoramento vero e proprio poco ci manca. Questo sembra essere il messaggio uscito dal secondo round de «Le Buone pratiche» dedicato al rapporto tra teatro e cinema. Ed infatti si è passati dallo screziato febbraio romano di «un amore non (sempre) corrisposto» alle «dissolvenze incrociate» del settembre veneziano, proprio nel giorno in cui il Lido e il suo festival cinematografico sono stati capaci di farsi «capofila» delle tante marce «a piedi scalzi» suggerite dall’appello per l’accoglienza dei profughi e rifugiati di Andrea Segre, cineasta d’assalto e documentarista civile di rara intelligenza critica. E per una di quelle felici coincidenze, simbolo di questo attraversamento multiculturale è stata l’epifania orchestrata da Eugenio Barba e Julia Varley che con la Banda dei Pulcinella di Spina, dopo aver «mandato all’aria» la scaletta degli interventi e sferrato un pugno emotivo al pubblico con i racconti fondativi cinquantennali dell’Odin Teatret, fraternizzavano nello spazio «garden» della Villa degli Autori con i protagonisti di «Tanna», freschi vincitori della Settimana Internazionale della Critica.

Sono, per l’appunto, incroci che si dissolvono e si ricompongono in un pomeriggio denso di spunti, talvolta polemici, spesso tesi alla costruzione di un discorso voglioso di passare dalla teoria alla pratica, non alieno da suggestioni creative, ma pronto a servirsi e non assoggettarsi ai modi di produzione vigenti. Anzi, forieri di un discorso interrogativo che cerca di trovare risposte proprio nella contaminazione delle due pratiche artistiche e comunicazionali. Peraltro in modo più o meno palese presenti nella storia del ‘900 dei due media. Non a caso si riprende da un discorso lanciato a febbraio da Angelo Curti, deus ex machina dei miracoli produttivi di Teatri Uniti e curatore con Marina Fabbri e Oliviero Ponte di Pino dell’incontro (con le Giornate degli Autori e Ateatro): «Molto spesso accade che gli artisti e gli operatori trattengano il fiato quando cedono alla possibilità di passare dal teatro al cinema o viceversa. Spesso chi passa dallo spettacolo riprodotto al teatro lascia una fetta di pubblico delusa.

Quando questo non accade, si raggiunge la condizione anfibia.» La raffinata provocazione sembra essere raccolta in parte da due altri produttori, a modo loro, rappresentanti di due metodi diametralmente opposti di lavorare, pur condividendo principi di indipendenza: Lionello Cerri che da Milano, forte anche dell’esperienza di esercente, avoca a sé l’esigenza di ripensare la sala cinematografica come luogo «social» di crescita culturale, ma anche di comunicazione; mentre Gianluca Arcopinto, propugnatore di un cinema di sostanza e di storie, anche se fatto in economia «i film a 7000 euro di Corso Salani possono valere quanto i film milionari?», ritiene che il teatro, in particolar modo quando si distacca dal suo linguaggio classico, può sbrecciare e penetrare le corazze produttive e distributive del cinema. Esempio è il cinema di Pippo Delbono – «non mi annoia, lui è tra le poche cose che vado rarissimamente a vedere a teatro» – che scardina convenzioni non solo dal punto di vista narrativo, ma soprattutto attraverso l’uso debordante delle nuove tecnologie.

Più tardi l’attore e regista di Amore e carne nel suo fiammeggiante assolo sembra ribaltare tali concetti, mostrandosi lontano dalle piccole diatribe provinciali nostrane, dando l’avvio forse ad una nuova fase del suo cammino teatrale e cinematografico. Eleonora Danco e Luigi Lo Cascio hanno lasciato sul campo riflessioni per lo più di segno opposto sull’attorialità e autoralità a teatro e al cinema. Affascinante il progetto sulla marginalità carceraria femminile del trio Mimmo Sorrentino-Bruno Oliviero-Luca Mosso, buona pratica indipendente tra drammaturgia, documentarismo e organizzazione di festival. Mentre, poco dopo la «performance» di Barba, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, i Motus, hanno sottolineato la valenza drammaturgica e non strumentale di schermi e video. Il loro mondo è il teatro, forse un giorno cinema, che pare non leggere, forse, i testi «sacri» della tradizione cinematografica e teatrale (precedenti richiami a Stanislavskij e Eisenstein, già fuorvianti, all’improvviso sono parsi obsoleti) schiacciati come sono dal loro presente punk mai domo.