Giuseppe Iannaccone potrebbe essere definito un insolito collezionista «al passato prossimo». Ha infatti iniziato a dedicarsi alla sua raccolta a fine anni ottanta, rivolgendo però lo sguardo indietro di cinquant’anni. Una scelta dettata da una sincera passione («Lui è proprio innamorato dell’arte», aveva detto di lui la vedova di Birolli, Rosa) e che gli ha permesso anche di operare con uno sguardo estremamente curato e selettivo. Nel suo dna collezionistico si riconoscono i caratteri di una lunga tradizione di conoscitori milanese, che ha visto in Jucker, Jesi, Mattioli e Boschi-Di Stefano le sue eccellenze. La differenza sta nel fatto che Iannaccone non ha cercato l’eccitazione garantita dal muoversi nei meandri della contemporaneità, ma è andato di soppiatto a scavare in una zona della pittura italiana sulla quale era caduta una un po’ inspiegabile ombra. Ha anche ritagliato con precisione una zona cronologica, che copre un ventennio, tra il 1920 (Rosai, I giocatori di toppa) e il 1942 (Vedova, Il caffeuccio veneziano). Una zona che Elena Pontiggia, grande conoscitrice del periodo, definisce in questi termini: «La sua collezione è uno dei ritratti più fedeli che abbiamo oggi in Italia dell’arte neo-romantica degli anni trenta, succeduta a quella neo-classica del decennio precedente».
Per la prima volta la collezione dell’avvocato milanese viene svelata integralmente con una mostra organizzata dalla Triennale milanese negli spazi molto stile Novecento del palazzo disegnato proprio negli anni trenta da Giovanni Muzio; spazi la cui enfasi è stata spenta grazie a un allestimento tradizionale dal tono molto domestico.
La mostra, aperta fino al 19 marzo, è accompagnata da un catalogo di qualità non comune, curato editorialmente da Mousse, che rende merito al lavoro critico e culturale sviluppatosi attorno a questa raccolta, grazie al coinvolgimento di numerosi studiosi tra i quali Flavio Fergonzi, la stessa Pontiggia, oltre ai curatori Alberto Salvadori e Risha Paterlini: Collezione Giuseppe Iannaccone Una nuova figurazione e il racconto del sé, Skira, euro 75,00).
All’inizio c’è Ottone Rosai
Se per questa raccolta si dovesse indicare un hashtag, «neoromantico» potrebbe essere quello più pertinente. C’è infatti un che di romantico nello slancio appassionato con cui il collezionista ha messo insieme la sua raccolta, facendo barra, senza mai timore di apparire parziale, sulle proprie preferenze e, all’interno di quelle, su criteri oggettivi di grande qualità: i «suoi» artisti sono rappresentati con opere infallibilmente giuste e relative agli anni giusti. Ma un qualcosa di romantico si coglie anche nella passione sincera e a tratti anche ingenua che incendia la pittura di questi maestri troppo spesso snobbati dalla critica. Sono artisti che guardano allo spazio della tela con candore e con intensità affettiva, come un campo su cui segni, colori e vita si trovano legati da un destino inestricabile. Come scrive Fergonzi, sono quadri che «raccontano bene una storia di cultura minoritaria, di furori giovanili non sopiti, persino di franca opposizione… contro le varie consolazioni offerte da un superiore formalismo».
All’inizio c’è Ottone Rosai; è lui, con la sua pittura callosa e stralunata, a dettare il mood di un’espressività che non stacca comunque mai i piedi da terra. Il suo Intagliatore, omaggio al padre, morto nel 1922, gettandosi nell’Arno, ammalato e indebitato, è un atto di aspra adorazione per un’umanità sconfitta. Quadro indimenticabile in cui la pittura sembra farsi carico di una missione: «per parte mia intendo a tutti i costi che l’arte e il nome di mio padre non finiscano in suicidio», scriveva in una lettera di quello stesso anno ad Ardengo Soffici. Rosai detta anche la misura: i quadri sono piccoli, stipati, a volte quasi miniaturistici, ma addensati da un’altissima moralità. È una cifra antiretorica che riaffiora in tutti gli artisti che seguono nel percorso. A cominciare dal trio romano che spremeva pittura guardando una Roma eternamente notturna dall’ormai celebre terrazza di via Cavour. Iannaccone ha avuto il grande merito e la caparbietà di mettere insieme un gruppo di opere straordinarie di Mafai, Scipione e della Raphaël di quegli anni d’oro. Come scrisse Libero de Libero, «anche i pori della pelle riassorbono notizie, eventi, lo spirito delle cose, e per noi fu quello il momento». Scipione è rappresentato da un insieme di ben cinque quadri e quattro densissimi disegni. Spicca con quella sua sfrontatezza tra divertita e apocalittica: una sua Natura morta apparentemente innocua del 1929, in realtà lascia venire a galla un sottotesto di un erotismo quasi inverecondo. Scipione è presente anche con l’Autoritratto del 1930, che già ha il sapore dell’addio. La firma è messa in orizzontale e infatti, se si ruota il quadro, si vedono emergere, in forma di spiritelli, i profili suo e della coppia dei suoi amici. Tre anni dopo Mafai continua idealmente quel discorso con un Autoritratto in cui il suo volto sbuca sulla tela impietrito dal dolore; dietro, come un fantasma, affiora Antonietta, maschera dagli occhi gonfi e arrossati. Scipione era morto, «quel momento» era svanito…
Il gruppo Corrente, con Birolli
All’asse romano della collezione corrisponde un asse milanese imperniato sugli artisti di Corrente. E in particolare su Renato Birolli. «Impazzivo per Birolli», racconta Iannaccone nel dialogo con Alberto Salvadori che apre il catalogo. «Trovavo le sue opere le cose più struggenti in assoluto». L’artista veronese fa quasi un capitolo a sé con ben dodici opere degli anni trenta, tutte da considerarsi tra le sue migliori. Birolli, anche per l’ampiezza della selezione ma non solo per quella, risulta così un po’ il fulcro ideologico della collezione. Il suo credo sulla pittura può essere scelto come un leitmotiv unificante e la Nuova Ecumene, tela del 1935 che nel contesto spicca per le sue dimensioni, ne è il perfetto manifesto: «terra della nuova pittura, in cui prende vita il sodalizio tra i giovani artisti uniti da un comune ideale poetico ed espressivo», scrive Birolli. Sullo sfondo di un paesaggio di periferia milanese, tutto giocato su una tavolozza antinaturalistica, e sul «vorticoso modo di sovrapporre colori caldi che accendono il cielo» (Mattia Patti nel bel saggio in catalogo), si riconoscono le sagome di alcuni amici di avventura, Sassu, Tomea e Manzù. E c’è naturalmente anche Birolli che tiene tra le mani un libro di Pascal: un quadro esistenzialista, neo-biblico, impregnato di romanticismo urbano.
Nella compagine di Corrente Guttuso si distingue per essere da subito il più sicuro ed estroverso dal punto di vista delle scelte pittoriche. La sua presenza nella raccolta sbanca grazie a un capolavoro come il Ritratto di Antonino Santangelo del 1942, un quadro-simbolo, che a Giovanni Testori era apparso come un San Gerolamo caravaggesco, con quel libro-Bibbia tra le mani che genera il suo sguardo profondamente pensoso. L’energia piena di fisicità e di certezze della pennellata di Guttuso misteriosamente si rovescia nel suo opposto, in incontenibile malinconia. Quadro davvero indimenticabile proprio per questo suo spleen.
Non si può chiudere il percorso nella collezione Iannaccone senza un cenno all’ultimo arrivato in famiglia (perché questo è un po’ il sapore della raccolta: pittori radunati nella loro famiglia di destino). Il riferimento è all’opera di Tullio Garbari, per ora l’unica dell’artista trentino, acquistata proprio alla vigilia della mostra ed esposta all’ingresso. Garbari, che davvero meriterebbe una riscoperta, affascina con il candore di quel suo classicismo antiretorico e popolaresco. Neanche a farlo apposta il titolo sembra quasi un sigillo per la collezione: La famiglia.