Quando Clubhouse ha iniziato a comparire negli iPhone mediorientali, gli ottimisti hanno immaginato uno spazio finalmente libero in cui si potesse parlare di tutto, intaccando tabù sessuali, politici, religiosi, patriarcali, sociali. Uno spazio «privato», lontano dagli occhi e le orecchie dei regimi che – è stereotipo piuttosto radicato nella realtà – nel mondo arabo, e non solo, sono ovunque.

C’è anche chi, come l’editorialista di Bloomberg Tae Kim (che cita lo stupore di un saudita nel trovarsi di fronte centinaia di stanze dove discutere di politica), si è spinto a scrivere che dieci anni dopo «Clubhouse potrebbe aiutare a soddisfare la promessa di primavera araba». Uno spazio virtuale ma concreto, dove organizzare proteste, discutere di società nuove, condannare sistemi di potere politico ed economico.

Con i suoi primi 10 milioni di utenti raggiunti a febbraio, la nuova app ha quintuplicato i suoi numeri in meno di un anno. E ha raggiunto anche il Medio Oriente, laboratorio di controllo sociale pervasivo nella vita reale e in quella social. I regimi usano strumenti diversi, tutti di successo: dal semplice e antiquato blocco della rete (tutto spento, per togliersi ogni dubbio di efficacia) alle leggi di regolamentazione di internet, spesso stratificate su preesistenti e sempre aggiornate normative anti-terrorismo che mirano a far terra bruciata di società civile e dissenso, organizzato o meno. Insomma, dalla mera censura a fattispecie di reato che si possono commettere solo online – un post, un tweet – ma che alla fine tornano sempre al solito ovile, quello della restrizione della libertà di espressione, che sia scritta su Facebook o gridata per la strada.

Con Clubhouse si è sperato, per poche settimane, di poter bypassare quegli occhi e quelle orecchie. La app, piattaforma audio, funziona a inviti: devi essere in lista e devi esserci con il tuo vero nome. Se qualcuno ti fa entrare, entri. Un potenziale sbarramento all’ingresso, una sorta di buttafuori virtuale, che aveva fatto immaginare che quello spazio fosse sicuro.

Così non è: non solo dentro ci sono finiti anche informatori e agenti dei servizi, ma la compagnia sviluppatrice, la Alpha Exploration, come le altre raccoglie dati sugli utenti (nome, indirizzo Ip, cosa ascoltano e cosa registrano, quanto tempo restano connessi e da dove, la loro rete di contatti) che potrebbe far «transitare» sui database governativi. Lo si legge nella privacy policy: la società consegnerà i dati «se richiesto dalla legge».

È il timore degli specialisti, che stanno avvertendo gli utenti: la prudenza non è mai troppa (lo si coglie dall’«appello» di una tv pro-governativa egiziana che ha detto di aver scovato una rete terroristica su Clubhouse). Come ha spiegato lo Stanford Internet Observatory, è «estremamente improbabile» che gli audio su Clubhouse siano criptati end-to-end, come fa WhatsApp. Inoltre, aggiunge l’Osservatorio, se si entra tramite Twitter o Facebook, la nuova app «potrebbe raccogliere e conservare informazioni associate a quel determinato account». Ultimo elemento: l’anonimato è impossibile, si accede solo dopo aver confermato la propria identità.

I più recenti casi sauditi hanno reso plastica la minaccia: la stanza ribattezzata «Razzismo in Arabia saudita» è finita su Twitter con screenshot e video che rivelavano l’identità e le opinioni dei partecipanti, mentre quella dedicata all’attivista Loujian al-Hathloul, da poco rilasciata, è stata chiusa dopo che alcuni partecipanti hanno minacciato di renderla pubblica.

E se Clubhouse non è fruibile da tutti – il funzionamento solo su iOS la rende già di per sé elitaria – per i regimi si potrebbe aprire un nuovo e insperato spazio di ascolto, da cui pescare dissidenti, critici e futuri prigionieri politici. Lo raccontiamo ogni giorno: non c’è paese in Medio Oriente in cui non ci siano detenuti condannati sulla base di un post su Fb, di un tweet o di un video su TikTok. A monte stanno leggi a tutela – ufficialmente – della sicurezza dello Stato, contro istigazione alla violenza e alla protesta, insulti alle autorità politiche e religiose, diffusione di notizie false.

Il loro numero è aumentato perché è aumentata, in questi dieci anni, la fruizione di internet nella regione. Nel 2011 molti analisti descrissero le primavere arabe come «le rivolte di Facebook», sottintendendo in modo palese che l’organizzazione delle piazze fosse avvenuta online e in modo meno palese che solo grazie a strumenti «occidentali» le masse arabe si fossero alla fine dimostrate capaci di ribellarsi. Un errore di calcolo numerico e politico: all’epoca i cittadini dei paesi interessati dalle rivolte avevano un accesso limitatissimo alla rete, ma una coscienza politica ben più sviluppata.

Oggi non è più del tutto così, accesso e numero di utenti di internet in generale e dei social in particolare è incrementato. A questa nuova realtà si sono adattate le opposizioni, i giornali indipendenti, i movimenti di base. Gli hashtag di protesta su determinati temi diventano rapidamente popolari, pur rimanendo spesso confinati a una minoranza di cittadini e non avendo lo stesso impatto di una piazza.

Diamo un’occhiata ai numeri al gennaio 2021, raccolti da Data Reportal. Se in Yemen l’accesso a internet è pari solo al 26,7% e gli utenti dei social sono appena tre milioni su una popolazione di 30, in Qatar la rete è accessibile a tutti e il 99% dei qatarioti ha almeno un account social. In Palestina gli utenti sono tre milioni, il 60% della popolazione, nel Libano e nell’Iraq delle proteste anti-settarie rispettivamente il 64% (4,3 milioni) e 61,4% (25 milioni) con un +20% dal 2020.

Nel Golfo delle petromonarchie il Bahrain ha un 87% di cittadini sui social, gli Emirati il 99%, l’Arabia saudita il 96%. Nell’Egitto di al-Sisi i numeri scendono: meno della metà dei 103 milioni di egiziani ha un account social e la rete raggiunge il 57% della popolazione. Nel resto del Nord Africa, si viaggia tra il 74,4% di utenti social marocchini al 69% di tunisini e al 56,5% di algerini.

Se comparati con i dati del 2014, si coglie il salto di Iraq ed Egitto (gli utenti social erano il 23% della popolazione), Tunisia (42%), Marocco (22%) e Algeria (18%). Ma si sono presto adattati anche i regimi, con il loro armamentario di leggi specifiche e controlli capillari. I casi si sprecano.

Per citare i più recenti: lo scorso 14 marzo Haneen Hossam e Mowada al-Adham, creatrici egiziane del gruppo The Agency sui social, sono state rinviate a giudizio per traffico di esseri umani e violazione dei valori della famiglia per la loro attività su TikTok; qualche giorno dopo, sempre in Egitto, la 27enne Sanaa Seif è stata condannata a un anno e mezzo per diffusione di notizie false tramite i social; il 17 marzo un giornalista turco del quotidiano Cumhuriyet, Enver Aysever, è stato arrestato e rischia un anno e mezzo di carcere per aver twittato nel 2020 un fumetto in cui un addetto alle pulizie disinfettava la mente di un imam.

Haneen Hossam e Mawada Eladhm, arrestate in Egitto dopo video di TikTok (Foto: Ap)

All’aumento dell’uso della rete si è aggiunto così un incremento significativo nella repressione. Un fenomeno affatto nuovo, nuovi sono i mezzi della censura: l’Arabia saudita ha chiesto la pena di morte per Israa al-Ghomghan per aver filmato e pubblicato online proteste in piazza; gli Emirati arabi usano nuove tecnologie di sorveglianza di internet, tra cui il britannico Bae Systems; l’Egitto – che ha arrestato e condannato al carcere cinque giovani egiziane famose su TikTok e «ospita» in carcere blogger e attivisti – ha approvato la legge Anti-Cyber and Information Technologies Crimes che ha permesso di oscurare circa 500 siti di agenzie di informazioni indipendenti, giornali, blog definendoli «minaccia alla sicurezza nazionale» e di imporre una normativa stringente ai siti che superano i 5mila accessi, trattandoli alla stregua di un media ufficiale.