Nella Lega di Matteo Salvini si smarrisce la Padania e sembra tramontato il leone di san Marco. Come sempre, Milano detta legge: decide i candidati e impone il diktat al Veneto del governatore «autonomista» Luca Zaia. Così si prepara una nuova resa dei conti, appena le urne saranno aperte.

Di più: il dissenso è già formalizzato da un quasi ex presidente di Regione e da un ex. Così il lombardo Bobo Maroni: «La Lega adesso è diversa dalle origini. Mi auguro non venga schiacciata su posizioni di destra radicale». E Roberto Cota dal Piemonte gli fa eco in un’indiretta polemica con il leder: «Una politica che mi lascia basito. Chi la fa in questo modo, invece di costruire alla fine distrugge». Zaia, invece, tace e resta concentrato sulla trattativa con lo staff del sottosegretario Gianclaudio Bressa per l’«autonomia speciale» del Veneto.

Ma è proprio nella Liga veneta che serpeggia la rivolta di militanti, amministratori locali, mancati candidati. È davvero impossibile digerire il rospo del “traditore” Flavio Tosi in lizza nella sua Verona, quanto la candidatura di Cinzia Bonfrisco (ex Psi e Fi) sotto il simbolo della Lega nel collegio senatoriale delle Marche.

E a San Donà di Piave (Venezia) si è visto solo il segretario veneto Toni Da Re alla presentazione di Renato Brunetta. I leghisti locali sono inferociti con Forza Italia, perché si vota anche per il Comune e il centrodestra non converge sul nome di Francesca Pilla come candidata sindaca di coalizione.

Clamorosa la presa di posizione di Stefano Stefani, 79 anni, vicentino, già sottosegretario e presidente della Liga Veneta dal 1995 al 2002. Scandisce senza appello: «Questa Lega io non la voto. Comanda Bitonci, quello che all’epoca stava con Comencini…». E sempre dalla roccaforte di Vicenza anche il capogruppo in Regione Nicola Finco si manifesta critico: «Mi sorprende la scelta di Fi di candidare Niccolò Ghedini nel collegio di Bassano».

Va peggio nel Trevigiano. Luciano Dussin, ex onorevole e sindaco di Castelfranco, mette nero su bianco da segretario di circoscrizione: «Credo sia umano interrogarsi su quanto è accaduto. Ci ritroviamo alleati con i traditori Tosi, Bisinella e Conte». E Marzio Favero, sindaco di Montebelluna, aggiunge: «Non c’è rispetto per la base, la grande forza del Carroccio che non ha mai avuto nulla e che fa tutto a proprie spese». Così a scanso di equivoci le riunioni al vertice della Lega di Marca vengono registrate a futura memoria, sintomo di una campagna elettorale tutt’altro che all’insegna dell’entusiasmo.

Chi punta l’indice mira a Lorenzo Fontana, 37 anni, eurodeputato, vice sindaco di Verona con un seggio sicuro nel nuovo parlamento. Di fatto è stato il plenipotenziario per le liste in Veneto, affiancato dall’ex sindaco di Padova Massimo Bitonci, caterpillar di Salvini con l’ambizione di ereditare la poltrona di Zaia nel 2020.
Una tenaglia che ha stritolato perfino il segretario Da Re. La strategia era limpida: emarginare i fedelissimi di Zaia, gli irriducibili al sovranismo, gli “autonomi” da Milano. Prima mossa: nessun consigliere regionale può aspirare al parlamento. Quindi il governatore è stato escluso da ogni vera decisione, condivisa solo con Salvini. E alla fine sono stati premiati i segretari provinciali, con la significativa esclusione di Luca Tollon (Veneto Orientale) e Stefano Falconi (Rovigo).

Depositate le liste, sono affiorati subito i rancori personali che soffiano sul fuoco della ribellione politica. Addirittura un paio di Bitonci-Boys hanno reso pubblico il dissenso nel Padovano. Scomparsi i simboli della Lega nel profilo social di Alain Luciani che pure guidava la Lista Bitonci ed era stato suo assessore. Poi Fausto Dorio che si sfoga così per la mancata candidatura: «L’eccesso di narcisismo politico con scarsa empatia, porta alla follia morale». Altrettanto risentito Renato Miatello, sindaco di San Giorgio in Bosco: «Ora siamo mobilitati per la campagna elettorale. Poi ci sarà la resa dei conti sui metodi adottati nella scelta dei candidati».

Fin dal 1979 la storia della Liga veneta è scandita da faide, espulsioni, scissioni più o meno di massa, clonazioni indipendentiste e infiltrazioni neo-fasciste. Forse, il 5 marzo potrebbe segnare il capitolo conclusivo del sogno: l’autogoverno serenissimo che ispirava Achille Tramarin, Michele Gardin e Marilena Marin.