Sul tanto atteso ritorno in aula a settembre si è letto, ascoltato, visto un po’ di tutto. La questione del distanziamento ci ha messo nelle condizioni di ridisegnare l’ambiente scolastico, la stessa idea di scuola. Sulla «didattica a distanza» si sono spese tante parole. Qualcuno l’ha vissuta in modo drammatico e fallimentare; qualcun altro ne ha letto vantaggi e prospettive; qualcun altro ancora, e siamo in tanti, entrambe le cose.

LA DRAMMATICITÀ di non vedersi fisicamente, di non incontrarsi, abbracciarsi, tendere una mano, il fallimento di incollare i nostri studenti per ore ad uno schermo quando ne avevamo aspramente criticato i rischi fino a un minuto prima. D’altra parte, è emersa la prospettiva di utilizzare i più svariati mezzi di comunicazione, entrando a pieno titolo nei social, insegnando ad utilizzarne i linguaggi in modo più consapevole, dialogico, se vogliamo anche erudito nel senso di alto interesse per la cultura. Siamo discretamente entrati nelle case degli studenti e loro nella nostra, con tutta la comicità del caso come quando si parla di libertà e disciplina sullo stile della Montessori e dietro di noi i bambini, chiusi in casa da mesi, corrono all’impazzata strattonandosi la canotta, tirandosi i capelli, rotolandosi sul pavimento.

La DaD, oltre a smascherare la nostra umana imperfezione, ha fatto un’operazione più profonda e filosofica, se vogliamo, ricordandoci la relatività delle distanze. Quante volte ci siamo trovati a un passo, anche meno di un metro, da un tal insegnante e lo abbiamo sentito distante infiniti anni luce. «Buongiorno» – diciamo noi timidamente – «buon-gior-no» – ci risponde già stizzito della nostra presenza e degli ormoni adolescenziali: scandisce la parola come se nel nostro saluto ci fosse qualcosa di sbagliato e non avessimo imparato bene la divisione in sillabe… qualche minuto dopo scorre il registro col suo minaccioso dito e noi a nasconderci dietro al banco.

QUESTA SCUOLA, si dirà, è superata, ma lo è per tutti? L’impatto psicologico che ne è scaturito è superato? È superata la distanza tra studenti ed insegnanti? Come percorrerle queste distanze?

Ed ecco il «compromesso storico» nella più ragionevole delle conclusioni: la DaD non è alternativa alla didattica in presenza, ma integrativa. Condizione necessaria per crescere insieme è incontrarsi nello stesso ambiente, affrontare i problemi, condividere gli spazi, ma dobbiamo anche andar oltre quel luogo fisico. Non basta abitare lo stesso ambiente per essere classe. Bisogna entrare in relazione e le possibilità comunicative, dialogiche, interpretative dei mezzi di comunicazione ci vengono a sostegno per educare all’ascolto, all’interazione: dalla radio ai social.

Eppure resta il problema del distanziamento sociale. Del resto, la didattica deve dare risposte a questioni politiche, sociali, anche sanitarie. Ecco che disegnatori si sono sbizzarriti nell’immaginare la classe distanziando i banchi come gli ombrelloni sulla spiaggia o i tavoli del ristorante, calcolando precisamente il metro tra banco e banco, con tutte le geometrie del caso. Manca solo il plexiglass a tenerci in sicurezza. Naturalmente in questi disegni si suppone che i bambini stiano incollati al banco, perché se solo si muovono insieme dobbiamo stracciare il disegno. In Cina hanno fatto sul serio: a scuola ci sono andati a distanza e con un metro in testa, come nelle più estrose parate di carnevale. A dire la verità, non vorrei essere nei panni di uno di loro, non so voi.

IL PENSIERO EDUCATIVO si costituisce anche a partire dalla logica degli spazi. Paulo Freire ha costruito le campagne di alfabetizzazione in circoli di cultura. Freinet eliminò la disposizione frontale e faceva confrontare i ragazzi gli uni davanti agli altri. Gli alunni di Milani imparavano intorno a grandi tavoli condividendo la conoscenza come si divide il pane, in piena convivialità. Perché allora non sgomberare le classi di cattedra e banchi e disporsi in circolo? Si conquisterebbe spazio per la mente, per il dialogo, nella circolarità di pensieri e delle parole, del sentire comune. E se questi circoli, quando possibile, fossero base di attività all’aperto? Magari nei parchi? Avremmo diritto di respirare a contatto con la natura, nell’ampiezza di un ambiente senza confini, viverne l’incanto. La distanza diverrebbe straordinaria occasione da cogliere per riappropriarsi di spazi perduti, anzitutto quelli interiori, costruendo nuove trame in questa narrazione collettiva, chiamata scuola.