Non è facile, dinanzi ai dati sulla disoccupazione dilagante (11,5% su scala nazionale, ma la disoccupazione giovanile supera il 35%), di fronte ai volti dei disoccupati che si sempre più si trasformano in mendicanti, di fronte alle tantissime storie rintracciabili sul web di chi ha scelto di togliersi la vita perché ha perso il lavoro, recensire un libro intitolato Lavoro male comune, apparentemente così distante dal ciò che è l’idea di giustizia nel nostro senso comune più radicato.
Nel migliore dei casi il titolo farà tornare alla mente il protagonista di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini – un’opera che è però scritta in anni (1971) in cui la disoccupazione in Italia era molto più contenuta (4%): «la cosa che non aveva differenza era la nostra volontà la nostra logica la nostra scoperta che il lavoro è l’unico nemico l’unica malattia…. E le lotte che fino allora facevo per cazzi miei contro il lavoro avevo visto che erano le lotte che tutti noi potevamo farle insieme e così vincerle». Quelle lotte hanno tuttavia contribuito notevolmente a produrre diritti effettivi perché costrinsero le istituzioni democratiche a definire un modo di regolazione all’altezza delle rivendicazioni degli operai e della società. L’agile pamphlet scritto da Andrea Fumagalli (Bruno Mondadori, pp. 135, euro 12,75) è figlio della stessa cultura che ispirò Balestrini: in esso si cerca di mostrare come l’etica del lavoro rappresenti in realtà una struttura di pensiero funzionale agli interessi capitalistici tanto più dopo la crisi del modello fordista.
Nella prima parte l’autore propone a tal fine un breve profilo di storia del pensiero economico dai Classici, a Marx, dai neoclassici a Keynes, a Weber sino al nuovo mainstream; attraverso una linea interpretativa in parte discutibile (soprattutto in relazione alla sostenibilità all’interno dell’opera di Keynes di una teoria del salario variabile indipendente) Fumagalli mostra come il lavoro non sia un bene economico, dunque neanche un bene comune: la domanda di lavoro espressa dalle imprese è in realtà domanda di prestazione lavorativa, l’offerta di lavoro da parte degli individui è in realtà offerta di disponibilità lavorativa, cioè tempo di vita.
Nella seconda parte – dopo una disamina completa e precisa delle riforme del mercato del lavoro che hanno colpito l’Italia dal Protocollo Scotti (1984) alla legge Fornero (2012) e attraverso una rilettura critica delle statistiche – si dà una descrizione rigorosa del processo di precarizzazione che fa del nostro Paese un caso esemplare di fallimento delle ricette di politica economica propinate dal mainstream.
Nella terza parte Fumagalli si concentra innanzitutto sulla «trappola delle precarietà» e osserva che se prima della crisi del 2008 la crescita di occupazione si accompagnava ad un aumento dei contratti precari con un effetto di sostituzione rispetto ai vecchi contratti, a partire dal 2008 sono i lavoratori precari i primi a perdere il lavoro, alimentando il numero degli scoraggiati e dei giovani Neet (coloro che non sono occupati, né si stanno dedicando all’istruzione o alla formazione). L’autore si sofferma poi sul ritardo tecnologico che caratterizza l’economia italiana.
Infine propone di affrontare i cambiamenti strutturali del sistema economico a partire innanzitutto da un nuovo sistema di sicurezza sociale. La stabilità del reddito, attraverso l’istituzione di un reddito di esistenza da concepire come reddito primario, favorendo le economie di apprendimento e di rete, migliorerebbe la capacità produttiva.
Tuttavia, come Fumagalli riconosce, l’introduzione di un reddito di esistenza potrebbe anche innescare una dinamica altamente conflittuale, perché – se fosse accompagnato dall’introduzione di un salario minino – si ridurrebbe la possibilità di ricatto sui lavoratori. Inoltre il rafforzamento delle economie di apprendimento e di rete (ma qui all’autore va ricordato che il collocamento dell’economia italiana nella filiera produttiva internazionale è dirimente!) ridurrebbe il grado di controllo capitalistico sui processi produttivi. Ci troveremmo dunque dinanzi ad una nuova forma della dinamica conflitto-sviluppo (capitalistico?), che rappresenta un tema delicato ma evidentemente inaggirabile per chi ha a cuore le sorti della classe degli sfruttati.

Il testo di Fumagalli nel suo complesso ripresenta, aggiornate dopo sei anni di crisi, alcune delle tesi del più impegnativo Bioeconomia e Capitalismo Cognitivo, e invita ad un difficile cambiamento culturale volto principalmente a due obiettivi: primo, un’analisi critica degli indicatori con cui tradizionalmente si esamina il mercato del lavoro – compito che l’autore porta a termine in modo convincente, nella seconda parte del testo, la migliore; secondo, una riforma del welfare che istituisca di fatto il «diritto di scelta del lavoro» – punto questo di grande interesse che tuttavia si presta ai consueti dubbi che accompagnano ogni formulazione di un assetto politico e sociale, proposto come ideale, ma che stenta a trovare riscontro nella realtà. Il punto è importante perché Fumagalli finalizza la sua analisi critica alla istituzione di un nuovo diritto alla scelta del lavoro, e ciò porta a riflettere non solo sulla convenienza di una riforma costituzionale (questa è la prospettiva resa esplicita dall’autore), ma sul significato che si vuole attribuire a un sistema economico che non sia fondato sui rapporti capitalistici.
Fumagalli si sforza di utilizzare un linguaggio quasi colloquiale, estremamente accessibile per i non economisti, ma anche e soprattutto per «la moltitudine di poveri laboriosi» dei nostri giorni poco avvezza alle categorie della critica dell’economia politica. Per questo egli utilizza Marx con in contagocce ed abusa dell’espressione bio-capitalismo cognitivo nominando solo parzialmente le novità principali del regime di accumulazione in cui viviamo. Per esempio un riferimento al ruolo assunto dalla finanziarizzazione nel processo di captazione del valore avrebbe reso più chiaro in cosa consista il tratto biopolitico del capitalismo contemporaneo. Ripresentare a partire da Marx la struttura analitica che costituisce l’ossatura su cui Fumagalli avanza le sue proposte, ci sembra dunque importante: nel capitalismo contemporaneo il lavoro sociale è stato sussunto dal capitale in modo tale da modificare anche le forme della produzione e della riproduzione della società stessa. Il funzionamento del capitale avviene dunque a livello sociale. Ne consegue che il comando sul lavoro avviene anche al di fuori dei cancelli della fabbrica. Ciò non vuol dire tuttavia che il valore trovi fondamento in qualcosa di distinto dallo sfruttamento della forza-lavoro. Significa invece che: 1. la forza-lavoro viene impiegata in forme nuove e diverse, cioè che la mercificazione delle attività umane non è necessariamente certificata da contratti di lavoro; 2. le forme dello sfruttamento capitalistico si sono evolute e non sono limitate al comando delle mansioni da svolgere durante le ore che costituiscono, per legge, la giornata lavorativa. Ciò avviene in un mondo in cui, quantomeno a livello tendenziale, cioè in altri termini guardando al paradigma tecnologico dominante, si assiste ad un aumento del valore d’uso della forza lavoro. Ciò significa che le cose che gli uomini sono in grado di fare e produrre aumentano, e ciò significa anche che le qualità che gli uomini possono esercitare nel fare le cose migliorano.

Tutte queste capacità – l’insieme di skill, dexterity e judgement che Adam Smith pone a fondamento della ricchezza delle nazioni – non riguardano solamente i lavoratori impiegati in segmenti isolati dei settori produttivi, ma assumono una dimensione pervasiva (come mostrano tra l’altro i rapporti Eurofound sulle condizioni lavorative in Europa, che l’autore avrebbe fatto bene a considerare). E ancora, si tratta di capacità che gli uomini sviluppano collettivamente, nel momento in cui si mettono in relazione gli uni con gli altri anche al di fuori del tradizionale rapporto di lavoro; anzi, spesso, nel tentativo di liberare il proprio lavoro e la propria vita dal comando che caratterizza i rapporti capitalistici. Eppure la società capitalistica tende violentemente a riorganizzarsi per ricondurre alle proprie logiche produttive e di mercato ogni frutto della libera cooperazione sociale, che Fumagalli tenta di classificare distinguendo fra prestazione lavorativa, opera, ozio, svago.

Rivendicare un reddito di esistenza in questo contesto significa pretendere un riconoscimento monetario dinanzi alla espropriazione capitalistica della libera cooperazione sociale, e più semplicemente di tutte le prestazioni lavorative non certificate che però producono valore, che presumibilmente, nel nuovo capitalismo, assume la forma di rendita finanziaria (un problema che come abbiamo visto l’autore non approfondisce).
Fumagalli conclude il libro mostrando, numeri alla mano, come in Italia sia possibile e auspicabile una sostituzione degli attuali ammortizzatori di sostegno al reddito con un reddito di base incondizionato. Seguendo un suggerimento di Christian Marazzi, vorremmo sottolineare l’importanza di rivendicare un reddito di esistenza come denaro creato ex nihilo, come forma di risocializzazione della moneta, soprattutto oggi dinanzi ad una politica monetaria europea che – come lo stesso Fumagalli ha mostrato altrove – appare ostaggio degli speculatori finanziari.