Pordenone, 21 settembre 2018. Con l’inguaribile entusiasmo Claudio Corrivetti, fondatore della casa editrice Postcart, arriva trafelato con le scatole di cartone che contengono Disoriente, il nuovo libro di Luca Campigotto (Venezia 1962, vive tra Milano e New York). Chilometri di autostrada, da Roma a Pordenone, con l’ansia di arrivare in tempo per la prima presentazione del libro alla 19ma edizione di Pordenonelegge – la Festa del Libro con gli Autori, promossa dalla Fondazione Pordenonelegge.it e curata da Gian Mario Villalta con Alberto Garlini e Valentina Gasparet. Campigotto prende in mano la prima copia, ne accarezza la copertina, la apre, la sfoglia osservandola con sguardo amorevole. Intorno a lui, alle pareti della galleria Due Piani, una serie di fotografie (tutte prove d’artista) che l’autore ha scattato a partire dagli anni ’80 – tra cui Mulbekh (1986), Malamocco, Lido (1992), Il Colosseo (2014) – fanno eco alle parole scritte. Storia, viaggio, fotografia: una curiosità che per Campigotto è cominciata “scartabellando” negli scaffali della Biblioteca Marciana a Venezia, dopo aver scoperto e poi inseguito i grandi viaggiatori del passato. Personaggi leggendari, sconosciuti e celebri, reali o di fantasia come Ibn Battuta, Marco Polo o Corto Maltese, con quel carico di avventure da sdoganare fuori dalle coordinate spazio-temporali, intercettabili con la bussola dell’immaginazione. I suoi appunti di viaggio mantengono lo sguardo meravigliato del primo momento, catturato e conservato per poterne godere nei tempi a venire. Il fotografo-poeta, vincitore del Premio Hemingway 2015 per il miglior libro fotografico (è autore di una dozzina di libri tra cui Le Pietre del Cairo, 2007, Teatri di guerra, 2014), colleziona “pensieri di deserto” che, come afferma, “valgono quello che valgono”. L’Oriente non è solo quello dei lunghi e numerosi viaggi, è anche quello che riconosce nella sua Venezia, quando – soprattutto di notte – le sue opere restituiscono visioni particolarmente evocative e misteriose. “Scattare fotografie viaggiando e sistemare al computer immagini fatte in viaggio è la mia razione quotidiana di pane e acqua.” – scrive – “La fotografia ha indicato un percorso alla mia vita, anche se col tempo mi sono arreso al fatto che il viaggio non ha una meta, non c’è destinazione finale. Solo un susseguirsi di tappe, tanti episodi di esplorazione e pellegrinaggio. Sogni giovanili d’avventura che presto diventano memorie e, spesso, malinconie.”

Terra di luna”, “Oppio e sabbia”, “Misteri veneziani in India”… Disoriente è una raccolta di racconti di viaggio che già nel titolo sono evocativi…

Sono ventitré raccontini che ho scritto nell’arco di 35 anni. I primi quattro risalgono al mio primo viaggio in India, nel 1986, quando avevo 24 anni. Gli altri non seguono un ordine strettamente cronologico. Alcuni li ho scritti apposta per questo libro. Tengo molto a questo progetto editoriale, perché ho sempre avuto un’anima ibrida. In teoria avrei voluto scrivere, non fare il fotografo. Ho un libro di poesie inedito che è pronto da vent’anni. Enzo Siciliano ne aveva pubblicato una ventina di pagine su Nuovi argomenti con il progetto di farne un libro, poi è venuto a mancare e non c’è stato un seguito. Sono contento che sia stato proprio Claudio Corrivetti, l’editore, a propormi di realizzare questo libro di scrittura in cui c’è molto di me.

Aprendo il libro a caso intercettiamo la foto notturna di una carena, scattata nella località veneziana di Malamocco…

E’ una foto che è stata pubblicata in Venezia Obscura, pubblicato da Peliti nel ’95. Avevo iniziato a fotografare nel ’91-’92, era il mio primo vero progetto su Venezia di notte che fotografavo con il banco ottico. Questa foto è stata fatta in un luogo completamente buio, con un colpo di fari di una Panda. Quel progetto è andato bene, ma l’etichetta del fotografo di notte mi è rimasta un po’ attaccata addosso. Sia prima, quando lavoravo in camera oscura, che adesso con il computer ho continuato, comunque, a fotografare di notte perché mi diverto più che di giorno. Di notte gli effetti delle luci sono più imprevedibili.

La foto in copertina mostra un deserto con le tracce di un percorso: un “disoriente orientato”?

Ho sempre avuto una fascinazione forte per oriente e medio oriente, ecco perché il titolo Disoriente. Ma anche pensando a me, in questo momento della mia vita. Poi è una parola che ha un bellissimo suono! La foto è fatta di niente, come mi capita certe volte. Fin da bambino una delle mie grandi passioni è Corto Maltese. Un altro personaggio di Hugo Pratt è Koinski e quella foto mi ha ricordato il disegno in cui questo personaggio, che era in Africa durante la seconda guerra, stava scappando in jeep. Sono in due, finisce la benzina e devono abbandonare il mezzo, quindi s’incamminano a piedi. Le tracce nel deserto che si vedono nella fotografia sono della jeep con cui mi muovevo in Yemen, ne 2006. Un bellissimo viaggio in un luogo dove oggi non si può più andare. Il libro è un racconto con tutte le varie anime. C’è un’anima in bianco e nero che dura vent’anni, poi negli ultimi dodici anni è a colori; c’è il paesaggio selvaggio – deserti, montagne, acqua – e le metropoli di notte Venezia, New York, Chicago, Toronto, Tokyo, la Cina.

E’ stata la laurea in storia che ti ha portato alla scoperta del viaggio attraverso gli esploratori del passato?

Dopo aver visto due libri di Robert Adams – From the Missouri West e Los Angeles spring – dissi a me stesso che avrei voluto fare il fotografo. Nel frattempo, alla fine di un corso di laurea molto lineare in storia, dovevo preparare la tesi. Pensavo di farla sulla fotografia, una delle idee era di scrivere della Farm Security Administration. Ma non mi convinceva tanto e un giorno, mentre ero alla Biblioteca Marciana, scartabellando ho aperto un cassetto e sono venute fuori le memorie di due mercanti veneziani che nel ‘500 erano andati in India. Mi sono appassionato. Era come leggere un libro d’avventura. Parlano di mare, animali, costumi religiosi e sessuali, merci, navi, pirati… Ho scoperto che c’erano anche altri viaggiatori, oltre a Giovanni Battista Ramusio e Mafio Priuli. Per quasi due anni ho lavorato sui loro testi, smontandoli e rimontandoli, raccontando le loro testimonianze. Una parte della tesi è stata pubblicata in Studi Veneziani. Poi, la settimana stessa in cui mi sono laureato – era il ’90 – e pensavo di fare lo scrittore, o magari il giornalista come mio papà, ho ricevuto l’incarico dell’Archivio dello Spazio, un progetto dei Beni Architettonici e Ambientali della provincia di Milano, ritrovandomi a fotografare il territorio insieme a tutti i grandi fotografi italiani: Basilico, Jodice, Radino, Barbieri, Castella… Nel frattempo ho iniziato a lavorare al libro su Venezia e son diventato fotografo.

Però fotografavi anche prima…

Mio zio, gemello di mio padre, che negli anni ‘60 si era traferito a Milano era amico di Gianni Berengo Gardin, Cesare Colombo e conosceva Gabriele Basilico e Giovanna Calvenzi da quando erano giovanissimi, quando una volta gli mostrai una foto di cui ero abbastanza orgoglioso, in cui c’era tanto bianco e l’ombra di un lampione in piazza San Marco – una delle mie prime stampe 30×40, che avevo stampato nella camera oscura che mi ero costruito dove la mia mamma stendeva la biancheria – mi disse che non c’erano i grigi, né il nero e che mi avrebbe mandato da uno che ci sapeva fare. Mi mandò a casa di Gabriele Basilico. La leggenda metropolitana è che io sia stato un suo assistente. Non è così, ma siamo diventati tanto amici. Per me è sempre stato una specie di fratello maggiore. La cosa più importante che ho imparato da lui è l’idea di non andare fuori con la macchina fotografica tanto per scattare, ma di avere un progetto. Quando Gabriele lavorava a Porti di mare, ho viaggiato con lui in Germania, Olanda e altrove. Poi ho cominciato a viaggiare per i fatti miei. Dopo il primo viaggio in India, dove ero andato con l’idea di fare foto tipo Gente Viaggi o National Geography, mi feci prestare il banco ottico, perché ho sempre voluto che le foto fossero molto nitide e avessero quella plasticità che dà il grande formato. Da allora ho sempre fotografato con il cavalletto e la macchina grande. Mi sarebbe piaciuto essere uno di quei fotografi dell’Ottocento che giravano per spedizioni. Sono un fotografo che cerca di scappare dalla realtà costruendosi una via di fuga. Fondamentalmente fotografo per me, per raccontarmi un’avventura.

Qual è la difficoltà di fotografare città come Venezia e New York?

Da Veneziano non ho mai sentito l’inibizione di Venezia, perché è casa mia, mi è sempre venuto naturale. Il mio approccio è molto sincero. Tanti anni fa facevo una fotografia poco intellettuale, legata a un immaginario esagerato, romantico oppure cinematografico. Ho fotografato per vent’anni in bianco e nero, andando tutti i giorni in camera oscura e stampando da solo anche i grandi formati. Lì ho trovato una disciplina zen. Il bianco e nero era una cosa seria, poetica, profonda. Il colore mi sembrava leggero. Come bere un vino rosso e un prosecchino, il bianco e nero è il vino rosso, il colore il prosecchino. Il computer l’ho scoperto molto tardi. Ho capito che mi interessavano i colori, non la fotografia a colori ed il computer permette di farsi il proprio colore. I miei colori variano a seconda del soggetto, ad esempio nel lavoro sulla grande guerra sono colori lividi, mentre sono molto carichi nei notturni delle città che hanno molto del cinema e dei fumetti. Venezia e New York hanno una magia agli antipodi, stranamente di sera New York è vuota, esattamente come Venezia.