Che l’occupazione e il lavoro siano la questione centrale che dobbiamo affrontare non è più messo in discussione da nessuno. Nei primi anni dallo scoppio della crisi il tasso di disoccupazione dell’Italia è stato più basso di quello della media europea, ma negli ultimi anni il fenomeno si è drammaticamente aggravato fino a raggiungere, secondo le ultime rilevazioni Istat, un tasso di del 12,7%, superando di gran lunga il dato medio europeo.

Dal punto di vista dell’ideologia economica è dominante l’idea che in fondo il problema dell’occupazione sia un problema del mercato. Se le condizioni del mercato sono tali da creare un’alta disoccupazione, c’è poco che la politica possa fare direttamente per risolvere il problema.

Un’azione diretta del governo, secondo questa opinione, creerebbe ulteriori problemi, aggravando le condizioni del debito pubblico, distorcendo ulteriormente il mercato e via dicendo. Al massimo si può cercare di oliare ulteriormente i meccanismi di mercato magari rendendo più flessibile il lavoro (nonostante l’indice dell’Ocse segnali già da molto tempo che il mercato del lavoro italiano è notevolmente flessibile in rapporto agli altri paesi europei) o cercando di creare dei deboli incentivi verso l’assunzione di nuovi lavoratori.

Che queste politiche si siano rivelate spesso controproducenti e comunque del tutto insufficienti non sembra aver scalfito questa certezza. Cosicché si attende una salvifica ripresa della crescita che, nel migliore dei casi dopo qualche anno, incentivi la domanda di lavoro alleviando, ma non risolvendo il problema.

Al contrario, ogni ragionevole idea di politica economica dovrebbe rovesciare l’approccio: la priorità è l’obiettivo di piena occupazione, cui subordinare gli altri obiettivi, compreso il contenimento del deficit pubblico.

Tra le possibili misure di politica economica volte all’aumento dell’occupazione ce ne sono due che nel nostro paese sarebbero particolarmente efficaci, ma che sono considerate quasi delle bestemmie. Non a caso negli Usa, in cui nessuno ha paura di apparire troppo statalista o post-comunista, se ne parla invece approfonditamente. La prima è quella di una assunzione diretta di lavoratori da parte dello stato, per progetti pubblici indifferibili, come il risanamento idrogeologico, la salvaguardia, la conservazione e la fruizione dei beni culturali e altre iniziative urgenti di grande valore sociale.

Questo argomento è stato sollevato in un recente e bell’articolo apparso sul manifesto e non mi ci soffermo, se non per notare di passaggio che non è vero, al contrario di quanto comunemente si afferma, che in Italia gli impiegati pubblici sono troppi in rapporto agli altri paesi. Infatti, secondo le stime dell’Ocse, nel 2011 il nostro impiego pubblico rappresentava il 13,7% dell’occupazione complessiva, minore degli Stati uniti (14,4%), della media dei paesi Ocse (15,5%), del Regno Unito (18,3%) e della Francia (21,9%).

Ma ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è l’orario di lavoro. La tendenza di lungo periodo dei paesi avanzati è la diminuzione dell’orario. Unica eccezione degli ultimi decenni è la Svezia, e comunque il monte ore annuo è più basso dei paesi europei. La realtà è che se confrontiamo il numero di ore lavorate in un anno in media da un lavoratore italiano con quello degli altri paesi europei, scopriamo subito che il dato dell’Italia è molto più alto. Dai dati del sito statistico della Commissione europea si ricava che un lavoratore europeo ha lavorato nel 2013 in media l’89% di ore rispetto ad un lavoratore italiano. Se poi consideriamo la Francia e la Germania i dati sono ancora più netti. Nello stesso anno in Francia le ore annue per lavoratore sono state in media l’84,5% e in Germania il 79% di quelle italiane. Queste differenze portano a risultati sorprendenti. Facciamo il seguente esperimento mentale: immaginiamo che in Italia sia mantenuto lo stesso numero di ore annue complessivamente lavorate in totale, ma che ciascun lavoratore sia impiegato per un numero di ore annue uguale alla media europea, a quella francese o a quella tedesca. La domanda è: di quanto dovrebbe aumentare l’occupazione per ottenere questo risultato?

In questa semplice simulazione l’occupazione dovrebbe crescere del 12,54% se un lavoratore italiano dovesse lavorare in media le stesse ore annue di un lavoratore europeo, del 18,34% se dovesse lavorare come un lavoratore francese e addirittura del 25,95% se dovesse lavorare come un tedesco. Nel primo caso si azzererebbe praticamente il tasso di disoccupazione ufficiale, nel secondo sarebbero occupati anche una parte consistente dei 3.300.000 potenziali lavoratori scoraggiati, cioè coloro che sono disposti a lavorare ma non cercano attivamente un lavoro, nel terzo tutti questi ultimi soggetti troverebbero occupazione.

Ovviamente si tratta di un esercizio che non può essere applicato meccanicamente alla realtà. In primo luogo non si può essere affatto sicuri che se per qualsiasi motivo diminuissero di colpo le ore lavorate in un anno da ciascun lavoratore le imprese sarebbero disposte ad assumere un numero proporzionale di nuovi lavoratori. In secondo luogo l’esercizio non tiene conto del fatto che in Italia la percentuale di lavoratori autonomi sull’occupazione è maggiore che negli altri paesi, e i lavoratori autonomi tendono a lavorare un numero maggiore di ore dei dipendenti, per cui il dato del numero di ore lavorate in Italia è sovrastimato se applicato ai lavoratori dipendenti. Anche tenendo conto di questa differenza, però, le variazioni dell’occupazione resterebbero altissime.

Quello che questo esperimento segnala è che esiste in Italia un margine di manovra amplissimo per stimolare l’occupazione agendo sulle ore lavorate. Si afferma in continuazione che dobbiamo essere più simili agli altri paesi europei e non si vede perché non dobbiamo seguirne l’esempio anche in questo caso.

Si deve poi notare che proprio in Germania il relativamente basso tasso di disoccupazione (di poco superiore al 5%) è stato ottenuto anche attraverso le politiche di job sharing. In Italia si tratterebbe, nell’immediato, di cercare di generalizzare i contratti di solidarietà, non solo al fine di evitare licenziamenti nei singoli casi di crisi aziendale, ma anche al fine di sostenere l’occupazione. Certamente ci sono problemi: proprio in Germania sono aumentati i working poors anche perché si è esteso il numero di lavoratori part time involontari.

In un mondo perfetto i part time involontari non sono desiderabili, ma non viviamo certo in un mondo perfetto. Inoltre il reddito minore, che nel breve periodo i lavoratori otterrebbero dalle imprese, potrebbe essere sostenuto dalle risorse che si liberano in seguito ad una diminuzione dei sussidi alla disoccupazione conseguente alla crescita dell’occupazione. In un periodo più lungo, i salari potrebbero addirittura crescere, per effetto della diminuzione del tasso di disoccupazione e della crescita della domanda aggregata. In ogni caso occorre agire con decisione per aggredire la disoccupazione, pensando fuori dal coro e senza ripetere stanche formule inefficaci e questa è una strada che occorre intraprendere se si vogliono ottenere risultati.