Tre donne argentine, Analia Kalinec, Erika Lederer e Liliana Furió, hanno reso pubblicamente noto il fatto di essere figlie di torturatori e assassini al servizio del regime dittatoriale che si stima abbia ucciso 30.000 oppositori tra 1976 e il 1983. Le tre donne hanno invitato coloro che sono nelle loro stesse condizioni di seguire il loro esempio. Vedono nella rottura dell’omertà familiare un passo importante perché la verità emerga fin in fondo.

La loro uscita allo scoperto è una reazione all’atteggiamento amichevole del governo di centrodestra nei confronti della lobby dei parenti dei circa 700 torturatori oggi in prigione, che vuole il loro rilascio. Per il lobbisti i loro parenti incarcerati sono «prigionieri politici», «eroi misconosciuti di una guerra contro la sovversione».

Analia, Erica e Liliana hanno deciso di prendere le distanze dal tipo di famiglia compiacente in cui alloggiano i carnefici. Essa è costruita sull’omertà: la negazione dei conflitti e del dolore che silenzia i desideri e riduce tutto a bisogni materiali. È tenuta insieme da una forte repressione dei sentimenti, non necessariamente manifesta in forma di violenza domestica. È molto probabile che il posto del padre nel suo interno lo occupi un uomo violento. La distruttività di cui questo uomo può essere capace in ambito sociale non è percepita come infrazione etica: è omogenea alla repressione delle relazioni che regna dentro le mura di casa. Del resto l’agire del torturatore ha come suo riferimento ideologico la Famiglia Ideale: La Patria, l’Ordine, la Religione, tutti i luoghi in cui il fanatismo, perdita dei valori etici, può diventare valore morale.

Le figlie possono disobbedire ai padri violenti per motivi più profondi della giusta ribellione alla violenza: sono inclini, una manifestazione precoce della loro femminilità, a contestare, in modo discreto ma tenace, tutte le regole convenzionali di cui l’autorità paterna si fa promotrice. Destabilizzano l’arbitrio, piuttosto che attaccarlo frontalmente.

Nell’ultimo loro incontro in prigione, il padre chiese ad Analia se lo considerava un mostro. Lei gli rispose: «Non come mio padre». Non era riuscita ad aggiungere: «Riguardo ogni altra cosa, sì, tu sei un mostro». Gradualmente si è resa conto che l’episodio aveva cambiato la sua vita. Ha scelto di affrontare la verità non importa quanto dolorosa potesse essere. Alla dissociazione psichica del padre, che non gli consentiva di entrare in contatto con se stesso, non ha corrisposto una dissociazione della figlia, capace di sentire affetto per lui per ciò che le ha dato (nel suo essere una persona divisa), ma anche di condannarlo senza esitazione per i crimini commessi e soprattutto per il suo rifiuto di riconoscere la propria colpevolezza.

È giusto che le colpe dei genitori non ricadano sui figli. Fare della colpa di una generazione un pregiudizio, duro a morire, nei confronti della generazione successiva (nell’ambito di una famiglia, di una comunità, di una nazione), è ingiusto perché contraddice il fluire della vita. Il suo non ripetesi in modo automatico se non quando qualcosa si è inceppato, irrigidito. Il pregiudizio è omogeneo all’inceppamento, non lo risolve.

Tocca, tuttavia, principalmente ai figli la responsabilità che, salvi sul piano del pregiudizio e sostenuti nella possibilità di una liberazione del loro destino, si adoperino per una via d’uscita reale. Non solo per evitare che le conseguenze delle colpe genitoriali cadano sulla loro testa, ma anche per impedire che loro stessi rimangano incastrati nei meccanismi in cui si e persa la generazione precedente e li perpetuino.