Il Premio per il migliore documentario di Sundance è andato a Navalny, il film di Daniel Roher sul leader dell’opposizione russa, girato nelle settimane trascorse fra l’avvelenamento da parte dei sicari di Putin ed il suo ritorno dalla Germania seguito dall’immediato arresto da parte della polizia. Un film in qualche modo speculare alla vicenda della fuga altrettanto rocambolesca di Edward Snowden dai servizi Usa, documentata da Laura Poitras in Citizenfour. I doc del festival quest’anno hanno trattato dissidenti cinesi e discendenti dell’ultima nave di schiavi attraccata negli Stati uniti, le insidie di Tik Tok e la riabilitazione dei prigionieri di Guantanamo e molto altro ancora.

Degno di nota Il Sogno americano e altre fiabe, una denuncia della Disney Corporation – e il sistema di sfruttamento della mano d’opera che rappresenta – firmata da una dei rampolli della dinastia di cui porta il nome. Abigail Edna Disney, che oggi ha 62 anni, ha coprodotto il film coi fratelli Tim e Susan, tutti e tre nipoti di Roy e pronipoti di Walt Disney, ma non ci potrebbe esservi trattamento meno agiografico dell’azienda di famiglia. La cinepresa della regista (che collabora qui con Kathleen Hughes) utilizza la società fondata dal nonno della regista – Roy – assieme al di lui fratello Walt, per costruire un’ istruttoria contro la abissale disuguaglianza che si è aperta nelle economie plutocratiche di era tardo liberista.

Il film si apre con repertorio di archivio su Walt e home movies della famiglia in visita Disneyland. Abigail appare come una bambina californiana bionda e felice sulle giostre del «luogo più gaio del mondo.» «Anche per noi come per milioni di altre famiglie le visite erano un rito felice,» spiega, ma la regista narrante mette subito in chiaro che non sono i bei ricordi di infanzia il punto del film bensì «l’assuefazione al profitto» che è venuta a caratterizzare il colosso industriale che domina ancora molto immaginario globale (controllando tra l’altro Marvel, Pixar, e Lucasfilm).

Mentre si gioca il primo posto nella classifica dei guadagni con Warner e ultimamente sempre di più Netflix, lo studio ha ancora un peso culturale e simbolico senza pari e dunque, sostiene Abigail, a maggior ragione, una responsabilità per gli eccessi dei suoi dirigenti, pagati stipendi da favola mentre i dipendenti nei suoi parchi si travestono da personaggi delle fiabe in cambio di salari da fame. È su questa disuguaglianza che si sofferma soprattutto il film, seguendo alcune famiglie di impiegati del parco mentre cercano di sopravvivere con salari minimi, insufficienti a rimanere al di sopra della soglia della povertà. Condizioni che hanno dato vita in anni recenti a ricorrenti vertenze sindacali documentate dal film.

Attraverso la storia ormai quasi secolare dell’azienda (fondata nel 1923), Abigail traccia la parabola di un american dream mutato da capitalismo familiare e paternalista, capace comunque in certa misura di crescere una classe media a sistema oligarchico sempre più sbilanciato. La vocazione al profitto delle corporation comincia a mutare in avidità sistematica a partire dagli anni 80, con la sterzata reaganiana verso il liberismo estremo. In quegli anni a dirigere la Disney arriva Michael Eisner, «CEO» simbolo dell’era Wall street e lo studio raggiunge capitalizzazioni da vertigine mentre i compensi dei dirigenti – Eisner in primis – volano alle stelle. Ora dell’amministrazione Bob Iger (2005-2020) l’amministratore delegato guadagnerà 2000 volte lo stipendio del lavoratore medio. E la traiettoria dello studio di Burbank è paradigmatica della radicalizzazione capitalista che porta all’attuale voragine di disuguaglianza.

«Credo davvero,» afferma Abigail Disney, «che questo sia un problema di ogni industria e del lavoro in generale. È un problema di Amazon e di WalMart e di McDonald’s.» «Noi ci occupiamo di Disney,» aggiunge la co regista Kathleen Hughes, ma nel senso più profondo la questione riguarda ogni azienda americana».

Con l’aiuto di alcune economiste, come Heather McGhee della NYU, il film delinea come l’oligarchia delle corporation, abilitata da mezzo secolo di politiche neo liberiste, ha plasmato l’attuale insostenibile sistema. La regista traccia l’influenza dell’idea proposta da Milton Friedman, delle aziende come motori ottimizzati per il massimo profitto a vantaggio degli azionisti, e come questa sia stata sdoganata da mezzo secolo di deregulation. Con Reagan, ed il vangelo del benessere che «cola dall’alto» di corporation sempre più sgravate da oneri fiscali, inizia una guerra di classe condotta dall’alto verso il basso con grande efficienza, di cui oggi vediamo realizzate le conseguenze: la definitiva rottura del patto sociale, da un sostituito capitalismo sempre più «darwinista» fondato sull’ideale friedmaniano di uno stato che assicura «la libertà non l’uguaglianza.» Secondo Abigail, si tratta di un fallimento politico e morale, («Mio nonno mica si portava a casa 60 milioni di dollari all’anno!» afferma la sua voce fuoricampo) e sta alle aziende garantire una vita dignitosa ai propri impiegati.

Mentre è discutibile la tesi sulle virtù di un capitalismo «ben temperato» e l’idea che le imprese possano volontariamente ristabilirlo, Abigail (ritratta nel film ospite in uno studio televisivo mentre chiede di pagare più tasse) non è l’unica esponente dell’1% a invocare una necessaria riforma. Il finanziere Warren Buffet, oracolo di Wall street ha pubblicamente lamentato di pagare meno tasse della propria segretaria e, come lui, altri fra i 745 miliardari americani (fra cui Mark Cuban, Marc Benioff, Ray Dalio e George Soros) sostengono pubblicamente imposte maggiori sugli straricchi.

Intanto in 50 anni, mentre gli stipendi dei lavoratori sono rimasti inchiodati, il gap fra megaricchi e poveri è aumentato di dieci volte, una impennata incrementata ancor più durante la pandemia. Nell’America delle file per gli alimenti e gli accampamenti degli homeless, è la questione destinata ad essere sempre di più il principale oggetto di dibattito politico, uno scontro esacerbato dal «populismo plutocratico» di Trump e dal precariato introdotto dal capitalismo delle piattaforme. E, in una America biforcata economicamente ed ideologicamente, un conflitto sempre più lungo demarcazioni di razza e di classe.

Al mastodontico regalo fiscale alle corporation ed al neoreaganismo di Trump ha fatto seguito il tentativo di Biden di ricostruire una parvenza di rete sociale. In quest’opera pur incompleta e boicottata, dalla destra, e nella crescita di potere contrattuale dei sindacati, la regista ravvisa un barlume di speranza per un capitalismo più equo. E che Disneyland possa tornare ad essere, se non il luogo più felice del mondo almeno un po’ meno iniquo.

«L’economia non è come il tempo, una cosa da subire passivamente», conclude, «Io spero che la Disney possa comprendere la forza simbolica di cui dispone per dare l’esempio anche ad altre aziende di una condotta più etica, in un’era in cui non contano più solo i profitti degli azionisti ma contano gli impiegati, la comunità e l’ambiente».