Una mostra complessa, liquida nell’allestimento, ma salda nel ricostruire un percorso. Si presenta in questo modo apparentemente contrastato la retrospettiva che il Mart di Rovereto dedica a Richard Artschwager, in un progetto curato da Germano Celant e realizzato in collaborazione con il Guggenheim Museum di Bilbao, visibile fino al 2 febbraio. La mostra, sviluppata in senso cronologico, raccoglie un’ottantina di opere dell’artista americano (1923-2013), a partire dagli esordi nei primi anni sessanta fino a lavori del decennio appena trascorso.
Le sale espositive aprono con lavori in cui l’artista impiega materiali e parti tipiche del bricolage e della produzione industriale, come Portrait Zero, Handle o Expression and Impression (realizzati tra il 1961 e il 1963) che mostrano rispettivamente delle assi di legno avvitate, un corrimano a sezione circolare sagomato a forma di rettangolo e una coppia di pannelli rivestiti in formica nei quali c’è un elemento estruso/incavato che li rende sovrapponibili. A questi pezzi scultorei si affianca un’immagine di interno dipinta su celotex che illustra un salotto in forma realistica e illusoria insieme. I temi sono quelli dello spazio, dell’ingombro degli oggetti, della forma appunto illusoria e della sorpresa dell’esperienza visiva non ordinaria, come lo stesso Artschwager racconta: «lo spazio è un’astrazione che si genera naturalmente dal nostro guardare, guardare dentro, guardare attraverso, camminare, aprire, chiudere, sedersi, pensare di sedersi, passare».
L’insieme di queste opere è, infatti, la quintessenza della ricerca dell’artista, una sorta di manifesto d’intenti che sarà poi messo in pratica lungo tutta la sua carriera: le questioni indagate sono quelle del volume degli oggetti, dell’ambivalenza tra materiale raffinato e prodotto industriale, tra opera e mobile di casa, tra apparenza e realtà, ma anche, più sottilmente, tra illusione e ontologia, seppure in una forma interrogativa e dialogica di tipo socratico.
Come scrive in catalogo il curatore, «il discorso visivo dell’artista si sviluppa sulla necessità di mettere in discussione il dogmatismo iconografico fra tendenze (come Pop e Minimal Art) che, apparentemente, si dichiarano antitetiche e conflittuali, mentre la molteplicità delle relazioni e delle associazioni fa parte del linguaggio aperto dell’arte. Artschwager evita le contrapposizioni e pratica una sintesi che include e tiene insieme gli elementi, seppur diversi. La sua posizione rifiuta pertanto la rigidità e l’indurimento, la sclerosi e l’inflessibilità, la frattura e la contrapposizione. Opera sulla trasversalità dell’oggetto».
Le sale successive ospitano altri lavori degli anni sessanta come Chair e Table and Chair, alcune tra le opere più note dell’artista, in cui i mobili hanno la forma del parallelepipedo che le include rivestito di formica, rispetto a cui evidenziano il massiccio ingombro volumetrico, il peso e finanche, ironicamente, la loro totale assenza di grazia. La dismisura, la gravitas e il kitsch costituisco infatti tre elementi ricorrenti nella pratica di Artschwager, che nelle sue sculture adotta soluzioni, materiali e finiture tipiche dell’interior design. È il caso non solo della già citata formica, impiegata ininterrottamente fino alle ultime opere, ma anche della lacca e della plastica, come pure dell’economico compensato multistrato, in origine distantissimo da qualsiasi nobiltà artistica.
Tali materiali determinano così scelte formali che sono visivamente riconducibili all’ordinario, agli imballi (come ad esempio nell’installazione in più elementi Archipelago, realizzata nel 1994), alle suppellettili e ai mobili di casa (Door e Head and Shoulders), alle spazzole, ai pavimenti. Di tutti questi materiali l’artista conserva l’aspetto di concretezza, che conferisce così un senso di apparente familiarità, una zona di confidenza che, per capovolgimento, rende invece l’opera una presenza straniante e del tutto inattesa. L’osservatore vede così materializzarsi di fronte agli occhi un tavolo scomposto (Splatter Table), un punto interrogativo ed esclamativo in setole di scopa di oltre due metri d’altezza (rispettivamente Question Mark ed Exclamation Point), oppure delle figure umane realizzate modellando delle masse di crine.
Artschwager evidenza quanto siano vicini i lembi tra la vita quotidiana e l’arte, ma, insieme, mostra le possibilità di sovversione nascoste negli oggetti e nelle immagini che di essi abbiamo. È un gioco ironico, paradossale e mai tragico, in cui la realtà non viene destrutturata criticamente o contestata filosoficamente, poiché per l’artista essa è diventata, parafrasando D. F. Wallace, una cosa divertente da non fare mai più. Ecco quindi un organetto essere il punto di ispirazione per uno statico Pianofart prigioniero del suo volume (2008) o un clavicembalo essere il modello per un sarcastico Pianogrande (2012) che ricorda gli strumenti giocattolo. Artschwager si diverte così a sovvertire il flusso visivo in maniera che, scrive Celant, «l’oggetto si affermi come cambiamento stupefacente, dove il banale si mescola all’artistico. In questo modo egli evita la monotonia concettuale della Minimal Art e la frivolezza organizzata della Pop Art, per promuovere invece un ritorno all’esperienza della cosa affidata all’osservatore, invitato a riflettere sulla dualità di idea e realtà, del vedere e del toccare».