Quando parliamo del quadro economico del tempo di Dante tocchiamo uno dei punti più tormentati della storia economica occidentale: il tumultuoso sviluppo urbano di Firenze nel tardo medioevo è stato a lungo un caso di studio per riflettere sulle specifiche modalità in cui è nato il capitalismo, sia come modo di produzione, sia come «mentalità». Si tratta di un tema non neutrale, che pesa ancora nella immagine vulgata di Dante, appartenente a una famiglia impegnata nel credito – fatto al quale avrebbe reagito con una visione «reazionaria» e risentita rispetto alla «borghesia in via di affermazione» e ai suoi valori (fattore, tra l’altro, non irrilevante della fortuna «fascista» di Dante, non solo per Pound). Come sempre, la questione è più complessa e stratificata rispetto all’emergenza di un rimosso, famigliare o personale che sia.

IL LAVORÌO DEGLI STORICI ci invita a farci una domanda a suo modo nuova: esistono, in Dante, delle riflessioni che possono rientrare in ciò che la bibliografia ha chiamato «economia politica medievale», secondo una nota provocazione dello storico Ovidio Capitani, intendendo con tale espressione un’etica economica capace di valorizzare l’attività mercantile in quanto essenziale al bene comune? A prima vista, questa idea non sembra compatibile con l’atteggiamento di condanna onnipresente nella Commedia, vista la centralità, per l’analisi del rapporto dell’uomo alla ricchezza, del ruolo della cupidigia, legata da san Tommaso al disordinato desiderio di ricchezze. Dante ne ricavava non una oggettiva analisi delle dinamiche sociali quanto un tentativo di definire una visione alternativa dei comportamenti da tenersi, insomma un dover-essere economico.

In verità i passaggi testuali a più alto tasso di «economicità» nei testi danteschi danno risultati contraddittori ma significativi, che sembrano smentire almeno in parte questa idea. Analizzati in serie, essi ci presentano un Dante inedito, esponente a tutto tondo del pensiero economico medievale, capace di pensare – in ciò davvero diversamente da quanto credeva san Tommaso – che il tentativo di comprensione dei meccanismi della società vada di pari passo con il tentativo di governarla e condizionarla, anche con il linguaggio.

Questo approccio è evidente dai due approdi più significativi del Dante economista, che sono certamente la riflessione sulla tendenza insita alla ricchezza all’augmentum (aumento) senza fine e il ragionamento incentrato sul rapporto tra il denaro come oggetto fisico e la moneta come mediazione valoriale.
Quest’ultimo punto era noto a Marx, che cita la Commedia nel Capitale per articolare il rapporto tra forma-valore ideale e concreta del denaro: non aggiungiamo nulla. Più interessante, invece, il primo concetto. Qui l’approdo di Dante è molto diverso, per esempio, da Pietro di Giovanni Olivi, frate francescano che aveva insegnato a Santa Croce in anni vicini a quelli in cui il poeta frequentò i conventi mendicanti della sua città. Nel Convivio (IV 13, 2) la ricchezza è all’origine di un desiderio sottoposto a un processo incessante di aumento, in contrasto con il desiderio di sapere, che invece tende alla compiutezza («Quello veramente della ricchezza è propiamente crescere, ché è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione»). Dante sottolinea dunque non solo la tendenza irresistibile all’augmentum, per usare un termine della teologia universiaria, ma anche il tempo troppo ristretto con cui esso si realizza.

QUESTA STESSA, sofferta percezione è alla base della celeberrima condanna della «gente nova» e dei «sùbiti guadagni» di Inferno (16.73), che individua nella velocità del guadagno qualcosa di fortemente negativo e condannabile («orgoglio e dismisura han generata»). Pietro di Giovanni Olivi, al contrario, aveva insistito sul significato positivo della capacità di circolazione del denaro: la velocità era uno degli strumenti atti a disinnescare il pericolo della tesaurizzazione inattiva della ricchezza. Nella teologia, questa riflessione porta alla valutazione positiva del mercante cristiano, la cui attività di vendita e acquisto, se realizzata con una serie di virtù definite con attenzione (la sollecitudine e l’industria), permette di contribuire al bene comune in maniera importante: siamo vicini a cogliere il cuore teologico nascosto della razionalità economica, come l’ha definito uno storico che a lungo si è occupato del problema, Giacomo Todeschini.

Un altro dato che interessa è che questa critica che Dante muove all’accumulazione è il risultato di un pessimismo che si definisce in maniera progressiva. Il poeta, infatti, si affaccia alla vita politica all’epoca degli Ordinamenti di Giustizia, quando al centro della discussione c’erano la ricchezza e i suoi effetti antisociali (è il momento dello scontro tra magnati e popolani). In quel momento, e fino al primo periodo dell’esilio, Dante sembra ancora aperto alla possibilità di governare la circolazione economica, come emerge a sprazzi nelle sue rime dottrinali.

MA ALL’ALTEZZA della Commedia risalta la sua volontà di disincantare il mondo delle merci e del denaro: lo spazio per una valutazione positiva del mercante sembra particolarmente ridotta, come se l’illusione del disciplinamento delle forze economiche, esperito e concepito negli ultimi anni fiorentini, fosse ormai svanita.
Le invettive dantesche non sono quindi il risultato di un isolato anticapitalismo cristiano e utopistico. Sono tracce complesse di un’etica economica che trova significato in una precisa tappa del pensiero economico occidentale – fatta salva l’avvertenza di Polanyi per il quale con l’età storica cambia anche la percezione di ciò che è economico.

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SCHEDA. Da Roma a Novara in compagnia della «Commedia» e dei suoi personaggi

Nell’ambito delle iniziative promesse dall’Accademia dei Lincei di Roma dedicate a Dante, si inserisce la mostra appena inaugurata «Paesaggi e personaggi della Commedia. Un’iconografia digitale» a cura di Roberto Andreotti e Federico De Melis. Esperienza immersiva per conoscere i testo dantesco in una maniera insolita. Vi sarà il supporto visivo delle acqueforti di Bartolomeo Pinelli conservate nel Gabinetto delle Stampe dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, in coproduzione nell’allestimento della mostra. Entrando dentro le camere oscure preparate per la circostanza, chi visiterà la mostra potrà approcciarsi ai passi più celebri del Poeta in maniera polisensoriale, insieme alla riproposizione di quelle opere che molti artisti di ogni epoca storica hanno dedicato alla Commedia.
Dall’11 ottobre invece, presso la Biblioteca Civica Negroni di Novara (palazzo Vochieri in corso Cavallotti), un percorso espositivo per scoprire i libri antichi (con oltre 2200 esemplari, tra volumi e opuscoli) che sfidano i secoli attraverso la Commedia dantesca. Si intitola appunto «Dante a Novara», a cura di Roberto Cicala e Paolo Testori con la collaborazione di Alessandro Audisio, Federica Rossi e Valentina Zanon, e avrà al centro codici manoscritti medievali, edizioni antiche e capolavori dell’arte tipografica. La selezione corrisponde alla collezione che, alla sua morte, Carlo Negroni ha lasciato alla comunità novarese. , sia per il valore e rarità delle edizioni che abbracciano oltre tre secoli di storia della tradizione dantesca. Per l’occasione sono stati composti due cataloghi: quello della stessa mostra, a colori, Dante a Novara Edizioni e personaggi della Commedia tra Sesia e Ticino (edito da Educatt-Laboratorio di editoria dell’Università Cattolica di Milano) e quello bibliografico delle edizioni dei secoli XV-XVII dal titolo La Collezione Dantesca di Carlo Negroni a Novara, a cura di Valentina Zanon (edito da Interlinea).