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Disillusioni di Ingo Schulze

Disillusioni di Ingo SchulzeDieter Roth, «Diario», 1967 – Michael Pfisterer

Scrittori tedeschi Ascesa e caduta di un perseverante eroe della quotidianità, che nel cuore della DDR apre una pregiata libreria antiquaria, in rovina dopo l’89: «La rettitudine degli assassini», da Feltrinelli

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 19 giugno 2022

Norbert Paulini e la sua libreria antiquaria sono tutt’uno. Un’infanzia foderata di letture, nel naso l’odore della carta stampata, fin da neonato Paulini dorme tra i libri che la madre Dorothea, avventurosa libraia nella Dresda dei primi anni Cinquanta, morta nel darlo alla luce, ha lasciato in eredità. Il padre non cerca un successore per il negozio e, liquidata l’attività, porta a casa i volumi, che si ammassano in casse e scatoloni, a lastricare i pavimenti, a fare da intelaiatura ai letti, da basamento alla culla. Con queste premesse, quasi seguendo una legge di natura o un meccanico determinismo, Norbert diventa prima un ascoltatore seriale di storie, lette dalla nonna e dalla proprietaria di casa, poi un lettore forsennato. Attraversa come una macchina da guerra le centinaia di pagine che lo circondano senza criterio di tema o di epoca, manda a memoria date, circostanze, contenuti, mosso da un appetito onnivoro che gli impedisce di scegliere, e obbedendo a un’idea di interezza che lo spinge a cercare, nei libri, il riflesso di un cosmo perfetto.

La sua vicenda è al centro di La rettitudine degli assassini, ultimo romanzo di Ingo Schulze, pubblicato in Germania nel 2020 e appena uscito da Feltrinelli, nell’accurata traduzione di Stefano Zangrando (pp. 271, € 18,00). La storia è un filo sottile, ma tenace. Volutamente non vistosa, senza tinte sgargianti perché non eclatante, quasi ordinaria, almeno all’apparenza, è la vita del suo protagonista, di cui è possibile, ogni giorno e più volte, pensare una replica, uno svolgimento che restituisca non la distanza ma l’idea del plausibile, non l’eccezionalità ma la vicinanza di quanto è familiare. Scrivere sulla lettura e sui lettori, questo l’intento dichiarato di Schulze. Più da vicino: chiedersi, e chiedere, se la lettura possa far smarrire la strada, e se ci siano lettori che, di colpo, possano rinnegare l’idea che per una vita li ha guidati.

Modi goffi, lingua sciolta

Rispondendo a questo interrogativo, Schulze dà corso alla storia di Paulini. Dopo le voraci letture giovanili, dopo una formazione da elettrotecnico interrotta sul nascere per carenza di libri, dopo il servizio militare trascorso presso la biblioteca di reggimento, alla fine degli anni Settanta il protagonista apre a Dresda una libreria antiquaria dove sfoga il suo gusto per il pregio, la rarità, l’antichità libraria coltivando una bibliofilia che non è posa, ma sostanza, non estetismo ma fondamento inscalfibile. Nel cuore della DDR, tra le maglie del suo granitico e occhiuto sistema, il negozio è una sorta di utopia concreta, un’isola dei beati dove una cerchia di lettori appassionati, insofferenti al totem dell’omologazione, trovano uno spazio per il confronto. Un’extraterritorialità dello spirito che si scandisce su conversazioni, sempre più fitte e sempre più libere, ricapitolazioni di intrecci, inviti alla lettura avanti e indietro tra scritture diversissime, più o meno note.

Capofila in queste scorribande analitiche è sempre Norbert Paulini, di modi goffi e lingua sciolta, insieme ritroso e sicuro, perseverante eroe del quotidiano che, attraverso le parole di ogni epoca e senza mai ricorrere a slogan, sferra un attacco, silenzioso ma affilatissimo, alla grevità del pensiero unico. Con il suo carretto trainato da una bici, lo stesso che usava la madre, Paulini va di casa in casa, acquista volumi che poi rivende, creando, tra gli scaffali della sua libreria, un regno libero, apparentemente apolitico, sospeso al di sopra del tempo, immune alle mode e indifferente all’utile. Ma dopo l’autunno dell’Ottantanove e soprattutto a riunificazione avvenuta, Paulini non riconosce più il mondo; ancorandosi alla sua libreria e a una presunta saldezza che però gli si sfarina in mano, sceglie di non guardare in faccia i tempi.

Spinto ai margini dal nuovo che avanza, spogliato del prestigio ottenuto nei dieci anni trascorsi, di là dal muro, come «signore dei libri», vede d’improvviso intorno a sé migliaia di volumi, prima considerati di pregio e ora non più conformi al mercato, finire a basso costo, in svendite all’ingrosso, accatastati in depositi di fortuna o direttamente al macero. Da lì in avanti, negli spazi perimetrati dalle nuove leggi economiche, sfavillanti di colori, assordati dalle sirene del consumo che promettono un’ininterrotta villeggiatura, «l’ambientazione paradisiaca per un film in costume», Paulini va a rotoli. Perde la casa, poi la moglie, per anni informatrice della Stasi a sua insaputa e occhio del sistema tra le mura della libreria; finisce alla cassa di un supermercato e, da ultimo, in una località sperduta della Svizzera Sassone dove compie la metamorfosi finale da vestale della letteratura nel suo carattere sovratemporale, impossibile da strumentalizzare, a sovranista contiguo ai gruppi neonazi, no-global di destra, alfiere del carattere tedesco e ostile all’immigrazione.

Fuori dal tempo

Più che un germoglio tardo del Milieuroman naturalista, di cui pure per qualche verso è parente, il romanzo di Schulze fa prevalere un’istanza epica, nel suo riportare, almeno nella prima parte, un decorso senza intrusioni emotive, con la distanza che non chiede al lettore di immedesimarsi e con il tono, tra il fiabesco e lo straniato, che sgrana i fatti con levità priva di pathos. In questo senso, lo stesso incipit – «A Dresda, nel quartiere di Blasewitz, viveva in tempi andati un antiquario che, per i libri e le conoscenze che aveva, godeva di un’impareggiabile reputazione» – rivela la calma di una narrazione che riposa fuori dal tempo, nelle cadenze insieme semplici e ieratiche del cantastorie. Oltre a guardare agli affioramenti neoepici del Novecento, da Döblin a Sorokin a Kertész a Esterházy, la bussola poetologica di Schulze si orienta soprattutto a Brecht e al suo teatro epico, con importanti debiti iconologici: impossibile non vedere, nella madre di Paulini che attraversa la città di Dresda con il carretto a due ruote pieno di libri, un medaglione brechtiano e, più che una semplice citazione, una ripresa, con il risalto dell’attualità, della vivandiera Courage e del suo malandato carro.

L’andamento epico con cui sono poste le premesse per la radicalizzazione di Paulini, nell’amplissima prima parte del romanzo, è però bruscamente interrotto, poi infranto nelle due successive, dove invece prevale la componente autoriflessiva e l’attenzione è posta sulla scrittura – da parte di un certo Schultze, con lieve alterazione sul nome dell’autore – di un racconto che ha per tema lo stesso Paulini, per slittare ancora, con fuoco più ravvicinato sulla storia come artefatto, verso il punto di vista dell’editor che cura il testo, e polverizzare ulteriormente le linee narrative, evidenziando le cuciture tra zona e zona e la riproducibilità potenzialmente infinita del meccanismo. Quasi a dire che l’epica ingenua, persino nel suo revival novecentesco già inteso a riflettere la complessità, non può più esprimere l’ottica stralunata del post-Ottantanove e la pericolosa eterogenesi dei fini che ha prodotto.

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