Disgraced è un dramma contemporaneo sull’identità dello statunitense Ayad Akhtar con cui il 10 ottobre si è aperta la stagione dello Stabile di Torino. Negli stessi giorni, la pièce è andata in scena anche al Teatro della Tosse di Genova per la regia di Gassmann. Un atto unico ambientato nell’America del dopo 11 settembre, in cui il musulmano è percepito come un pericolo anche se per i fedeli dell’Islam «l’estremismo ha a che vedere con la nostra risposta al potere globale, una risposta reazionaria, disfunzionale, assassina, traumatizzata dalle vicende post-coloniali, e con il fatto che il potere globale è altrettanto assassino», scrive Ayah Akhar. Classe 1970, lo scrittore e drammaturgo è nato e cresciuto a New York da genitori pakistani. Il suo testo ha vinto il Premio Pulitzer 2013 ed è stato tradotto da Monica Capuani.
Sul palco del Carignano si snoda la storia di Amir, brillante avvocato che cela le sue origini musulmane ai colleghi ebrei proprietari dello studio legale: al momento del colloquio di lavoro aveva dichiarato che padre e madre erano nati in India. Una mezza bugia, perché nel 1946, data di nascita del papà, ancora non c’era stata la Partizione e quel pezzo di Punjab ancora non si chiamava Pakistan. Come buona parte delle seconde generazioni di immigrati in Occidente, anche Amir vive una serie di contrasti interiori: da una parte rifiuta l’Islam impartito in famiglia, quello della madre che gli fa sputare in faccia a una bambina perché ebrea; dall’altra si lascia assimilare, teme che la sua diversità venga scoperta, si sente a più riprese inadeguato e poi rifiutato. Amir resterà sempre straniero, estraneo. Il sogno americano? Una menzogna perché di fatto non esiste autodeterminazione, quello che ci portiamo dietro sarà sempre lì, un bagaglio che non potremmo mai lasciare perché ci saranno gli altri a ricordarcelo. Il momento in cui le tensioni vengono a galla è quando il giovane cugino Abe – un ruolo di Elia Tampognani – gli chiede di prendere le difese di un leader religioso musulmano accusato di terrorismo.
SPAZIO BIANCO
La regia dell’austriaco Martin Kušej, direttore artistico del Residenz Theatre di Monaco, ha previsto una messa in scena astratta, più forte e ben diversa da quella newyorkese che era stata realistica, in un loft con tavola imbandita, piatti e bicchieri di cristallo e riferimenti alla Grande Mela. A Torino c’è solo uno spazio bianco a rappresentare l’intimità dell’animo e dell’abitazione dell’avvocato e della moglie Emily (la brava Anna Della Rosa), una pittrice americana bionda affascinata dalla cultura musulmana; il pavimento è nero, pieno di carboni vegetali che fanno rumore e distolgono l’attenzione degli attori in scena, che su quel suolo accidentato cadono, si rialzano, ferendosi davvero. «Quel carbone ci sporca, ci affatica, fa male alle piante dei piedi. Ma è soprattutto il rumore a renderci difficile il mestiere di attore: fatichiamo a esprimerci, a calibrare le battute. Il carbone è uno spazio mentale, non naturalistico. Rende la difficoltà di esprimersi quando sei a cena con amici che in realtà non sopporti più, con cui ti ritrovi soltanto nel rispetto delle convenzioni sociali», commenta Paolo Pierobon che sul palco veste i panni del protagonista Amir.
«Il carbone mette gli attori in una situazione di precarietà e insicurezza, ti destabilizza ma in senso positivo conferendo potenza alla pièce teatrale», interviene Fausto Russo Alesi che impersona il mercante d’arte ebreo Isaac che sulla scena è sposato con Jory, un’avvocatessa afroamericana (Astrid Meloni). E aggiunge: «Tutta la messa in scena di Martin Kušej è esistenziale, ruota attorno alla ricerca di identità. Ci obbliga a lavorare in maniera diversa, scardina le nostre sicurezze, ci mette in una posizione più autentica. Il tema trattato è universale». Nel senso che quello che vivono oggi gli immigrati d’origine musulmana assomiglia parecchio a quello che vissero i contadini che nel dopoguerra si trasferirono nelle grandi città del Nord Italia: tutti cercavano di nascondere le loro origini ma non sempre ci riuscivano.
SOTTOMISSIONE
Per coloro che hanno vissuto questo sulla loro pelle, Disgraced ha la dimensione dell’incubo: per quanto tu possa sforzarti di appartenere, accaparrandoti titoli di studio, sudando sette camicie per fare carriera, parlando con la cadenza giusta quella che peraltro è la tua lingua madre (inglese, italiano o francese che sia), ci sarà sempre un dettaglio che un giorno ti tradirà. Facendo crollare tutto quello che hai costruito. Come un castello di carte. Senza via di ritorno: Amir è sconfitto, prende a botte la moglie, facendola cadere sul carbone. Il pubblico del Carignano sobbalza di indignazione e trova la sua verità: nell’immaginario dell’audience torinese l’Islam è soprattutto terrorismo e botte alle donne. Un attimo dopo Amir si mette in ginocchio, in uno spazio sporco per il carbone. La sua genuflessione diventa un inizio, esitante, di preghiera musulmana. Un ritorno alla fede? Forse. In ogni caso per lo scrittore Ayad Akhtar quella preghiera «è sottomissione definitiva, la più dolorosa».