Abbiamo davanti gli occhi le immagini della «liberazione» di Kabul: i talebani che entrano vittoriosi in città vent’anni dopo l’inizio della Long War; l’inviata della Cnn Clarissa Ward, coperta con lo chador di fronte all’ambasciata americana abbandonata, che dice «non avrei mai creduto di essere testimone di scene del genere nella mia vita»; gli afghani che avevano sperato in un futuro diverso, compromessi con il governo amico dell’Occidente, ammassati sulle scalette di aerei che non partiranno mai. Sguardi e voci che chiedono – ai compagni attorno, alla propria coscienza, al primo straniero che passa – come sia potuto accadere.
Da storico militare posso dire non è stata una sorpresa.

Soltanto il ritmo frenetico preso dagli avvenimenti dopo il 10 agosto mi ha stupito: perché l’incapacità delle forze di sicurezza afghane di affrontare l’offensiva degli insorti era evidente – per chi avesse voglia di guardare in faccia la realtà – già da alcuni anni. Nel 2019, quando lavoravo al mio saggio Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, i militari della Nato impegnati come addestratori di reparti dell’Afghan National Army mi confessavano di avere grossi dubbi sulla loro efficienza. «Quando si arriverà al combattimento, non avranno alcuna speranza. Gli ufficiali vendono la benzina al mercato nero, i sottufficiali vendono le munizioni, i generali firmano organigrammi falsi per intascare gli stipendi di soldati che non esistono»: di 300 mila uomini dichiarati «presenti» ce n’erano in servizio forse la metà; di questa metà, un terzo era pronta a disertare al primo colpo di fucile, un altro terzo a passare direttamente con gli insorti. Nonostante i quasi 90 miliardi di dollari spesi dagli Stati uniti per le sole forze armate afghane, oltre alle cifre investite dagli alleati della Nato, vent’anni non sono stati sufficienti a creare un esercito capace di respingere l’offensiva di poche decine di migliaia di guerriglieri armati alla leggera – pick-up con mitragliatrici, AK-47, lanciagranate a razzo (Rpg).

Di nuovo: come è potuto accadere? Per vincere una guerra bisogna provare almeno a combatterla; per combatterla, bisogna essere disposti a morire. Il fallimento dell’Occidente in Afghanistan è stato politico e morale, prima che militare: l’impossibilità di creare un esercito afghano dotato della volontà di lottare per il proprio paese nasce dalla percezione, condivisa da molti, che la parte migliore del paese fosse altrove. Un governo corrotto, diviso tra fazioni, incapace di garantire giustizia e sicurezza alla popolazione non potrà mai essere un buon motivo per rischiare la pelle contro uomini che affermano di lottare per grandi ideali – in questo caso, per Dio e la patria: agli americani dovrebbe suonare familiare – e sono disposti a sacrificare la vita in combattimento. Si può continuare a combattere per soldi: ma negli ultimi mesi, a quanto pare, erano finiti anche quelli.

I più gravi errori sono stati commessi subito dopo la vittoria sul campo dell’autunno 2001, quando l’Occidente ha scelto di appoggiarsi a una classe dirigente screditata, che mai avrebbe potuto conquistare il consenso della propria gente; il resto è venuto da sé. In guerra non vince sempre il più forte; o meglio, la forza non si misura solo col numero dei soldati, o il «peso» e la tecnologia delle armi. In guerra vince chi riesce a creare un equilibrio tra motivazioni, risorse, obiettivi; tra lo spazio e il tempo; tra i costi e i benefici della lotta.

I talebani hanno vinto perché hanno condotto una paziente campagna di logoramento delle risorse morali e materiali del nemico, costretto a spendere cifre comunque enormi per risultati inconsistenti, visto che una «guerra tra la popolazione» si vince se si garantisce sicurezza alla gente, e non si può garantire la sicurezza di un paese come l’Afghanistan senza una presenza capillare sul territorio. Alla fine i talebani hanno costretto l’Occidente ad abbandonare la partita per manifesta inferiorità politica: le democrazie hanno bisogno di consenso per combattere, e la loro resistenza lo aveva cancellato. Il fastidio dell’elettorato americano convinse Obama a dichiarare l’inizio del ritiro delle truppe nel giugno del 2011: errore fatale, perché a quel punto i talebani sapevano che il tempo giocava dalla loro parte. Trump ha proseguito nella stessa direzione; Biden, in maniera tragicamente dilettantesca, ha fatto solo l’ultimo passo lungo una strada sbagliata.