Sul finire di una guerra, una sola cosa è chiara: ciascuna delle parti interessate cerca di assicurarsi posizioni di vantaggio da giocare a proprio favore sul tavolo negoziale, se mai ci sarà. Dal rapidissimo effetto domino che una dopo l’altra ha fatto cadere le principali città afghane in mano ai talebani, fino al loro arrivo a Kabul, da una parte, e, dall’altra, dalle altisonanti dichiarazioni del presidente Ashraf Ghani, che si manifestava deciso ad asserragliarsi nel Palazzo Presidenziale fino alla fine, in quanto – a suo dire – democraticamente eletto dal popolo afghano, sembrava fino a ieri di essere giunti all’istante che precede la resa dei conti e, come capitato più volte in passato, al bagno di sangue. Erano invece trattative tese allo spasimo, che alla fine hanno partorito una soluzione win-win, per le forze in campo, anche se non per il popolo afghano.

Usa e Occidente, in primo luogo, che, sconfitti, hanno realisticamente abbandonato il Paese, ma non si sono arresi. L’«Arrivano i nostri» di un contingente di tremila soldati americani (se non di più) e seicento inglesi presso l’aeroporto di Kabul, ha di sicuro esercitato un peso sulle ultime febbrili trattative, in cui tutto era possibile. Gli Usa, e gli occidentali con loro, hanno infatti bisogno di difendere la loro credibilità di fronte agli alleati del mondo arabo e l’ultima cosa che avrebbero voluto sarebbe stata l’onta di una seconda Saigon, con i disperati che cercano di aggrapparsi agli elicotteri. Avevano bisogno di un “face saving device” e lo hanno trovato. L’evacuazione, se ci sarà, avverrà con tutta calma.

C’era poi il problema di cosa fare con il governo messo su dagli occidentali. Se inevitabilmente si stava sfaldando, il suo Presidente, Ashraf Ghani, con il quale i talebani rifiutavano di trattare, negava l’evidenza di essere diventato ormai un ostacolo e, in quanto tale, destinato a essere messo da parte. Non si escludeva a Kabul la possibilità che, dall’aeroporto, un ben armato corpo di spedizione occidentale si recasse al palazzo presidenziale per dimettere, in un modo o nell’altro, il querulo quanto ormai inutile fantoccio.

Innegabile è la vittoria dei talebani, dopo il prodigioso blitz, che li ha visto in pochi giorni conquistare tutto il Paese ed arrivare a Kabul. Un po’ troppo prodigioso, tuttavia, per non ricordare quanto avvenuto all’epoca della loro prima, e altrettanto veloce, presa del potere, all’inizio degli anni ’90. I body bag che numerosi nei giorni scorsi, secondo persone ben informate, sarebbero stati caricati su camion diretti in Pakistan, sembrano indicare che ancora una volta la travolgente offensiva dei talebani potrebbe non essere stata esclusivamente opera loro, bensì da attribuirsi in gran, se non massima, parte agli uomini dell’ISI (il servizio d’intelligence pakistano) pashtun come loro, parlanti la stessa lingua, come loro vestiti e con loro confusi, ma soprattutto con un’esperienza militare e una dotazione di armamenti che i talebani, quelli veri, non avrebbero potuto neanche immaginarsela. Quella attuale non sarebbe che il ripetersi della stessa messa in scena.

Il Pakistan sarebbe insomma rientrato alla grande nel Grande Gioco, deciso a controllare il Paese, le sue scelte geopolitiche e le sue risorse e ottenere finalmente il riconoscimento da parte afghana della Durand Line del 1893, come confine ufficiale tra i due Paesi, attraverso una forza politico-militare che ha saputo conquistarsi credibilità a livello locale, attraverso anni e anni di resistenza all’occupazione occidentale.

Dimesso ormai il Presidente afghano – la cui partenza, sia detto per inciso, più che una fuga sembra una cacciata con la minaccia dell’uso della forza – la scelta da parte del governo uscente di un politico accettabile come interlocutore per i talebani, dovrebbe a questo punto spianare la strada a un governo di transizione che possa tentare un atterraggio morbido per la compagine che finora ha retto l’Afghanistan, in verità con poca efficienza e molta corruzione.

Da parte occidentale dovrebbe esserci una bella stretta di mano all’amico/nemico talebano all’aeroporto di Kabul, con tanti saluti a chi rimane a terra o, peggio ancora, tenta di arrampicarsi sugli aerei in partenza, ma si saprà presumibilmente anche promettere un profluvio di aiuti di emergenza per il popolo afghano, che esce spossato da questa ventennale invasione per ritrovarsi, dopo aver dato retta alle nostre incaute promesse in fatto di diritti umani e in particolare delle donne, in un regime fondamentalista islamico tipo Arabia Saudita.

Ma le onde d’urto della mossa “tale-stana” o “paki-bana” che dir si voglia, non potranno non aver ripercussioni sui restanti Paesi dell’area e più in generale sugli equilibri mondiali.

E se da una parte, sembra fare il gioco dell’Arabia Saudita e più in generale dell’Occidente nel contenimento dell’Iran sciita, dall’altra non può che destare preoccupazioni nel gigante indiano che sicuramente avrebbe preferito uno Stato cuscinetto piuttosto che uno subalterno al Pakistan, preoccupazioni susciterà anche in Russia che, dopo le protocollari strette di mano con i nuovi arrivati, non potrà che invitarli con forza ad astenersi da qualunque tentativo di esportare la rivoluzione sunnita fondamentalista di cui sono portatori verso le repubbliche caucasiche, mentre la Cina avrà probabilmente già sollecitato e ottenuto assicurazioni di non intervento nella situazione degli Uiguri nello Xinjiang, oltre che di apertura all’ambizioso progetto della Via della Seta.

A rimetterci, come inevitabilmente accade a chiunque abbia perso una guerra, sono gli Stati Uniti e la Nato, perché si dimostrano ancora una volta tragicamente incapaci di vincere le guerre che tanto facilmente intraprendono (come non ricordare con orrore la granguignolesca citazione di Cesare da parte di Hillary Clinton, alla notizia del linciaggio di Gheddafi: “We came.We won, he died / siamo venuti, abbiamo vinto, è morto”), il che non potrà non seminare dubbi anche negli alleati più affidabili (noi compresi, si spera). E quanto alla Nato, già accusata di morte cerebrale dall’alleato Macron, non potrà a sua volta che riflettere sul collasso degli ambiziosi piani di difesa degli interessi occidentali nel mondo e, ma forse sarebbe chiedere troppo, sull’utilità della sua stessa esistenza in vita. In fondo, in fondo, il ritorno di un bell’isolazionismo americano non potrebbe che far piacere al mondo intero.