Tra molti analisti politici a Cuba, sembra esserci un consenso sul fatto che le proteste dell’11 luglio siano un appello al regime per includere nel dibattito pubblico importanti rivendicazioni sociali che si sono manifestate nelle strade. Violentemente o meno, stimolate da attori esterni o no, il fatto è che risuona ancora in tutto il mondo la notizia delle più grandi manifestazioni che si siano svolte nel paese negli ultimi 60 anni.

DOMENICA, 11 LUGLIO, numerosi gruppi di cittadini hanno occupato le piazze chiedendo migliori condizioni di vita e più libertà. Gli internauti hanno denunciato sia la violenza di alcuni manifestanti, che hanno saccheggiato i negozi e attaccato i veicoli della polizia, sia la forza bruta usata dagli agenti di polizia per contenere i disordini. Secondo Alina López Hernández, storica e coordinatrice del portale La Joven Cuba, molti dei suoi colleghi sono stati arrestati, nonostante stessero manifestando pacificamente, seduti davanti al Capitolio.

Il portale La Joven Cuba ha anche denunciato la scomparsa dello studente Leonardo Romero, arrestato due mesi fa per aver portato con sé un manifesto con scritto «Socialismo sì, repressione no» e di cui non si hanno notizie da domenica. Data la dimensione delle proteste, il presidente Miguel Díaz-Canel ha invitato il popolo a scendere in piazza per «affrontare» i manifestanti. I video e le trasmissioni in diretta delle proteste si sono diffusi sui social come Facebook e YouTube, la cui operatività è stata sospesa sull’isola, insieme al servizio di Internet a dati, secondo il fotoreporter Roberto Suárez. Sempre secondo Suárez, da lunedì, non ci sono state più manifestazioni all’Avana, dove le strade sono oramai costantemente presidiate dalle forze di polizia.

PER IL FOTOGRAFO le manifestazioni sarebbero state stimolate da un nucleo al di fuori di Cuba, che continua a postare video e messaggi con l’intento di stimolare le proteste. «Penso che il nucleo delle proteste sia stato organizzato nel sud della Florida e che parte della gente, in alcune città, si sia riunita», ha detto Suárez al manifesto. La teoria che le manifestazioni siano state orchestrate dall’estero, nel tentativo di stimolare una forma di golpe «soft», è stata un pilastro del discorso ufficiale sugli ultimi accadimenti nell’isola. Tuttavia, esperti in materia avvertono che, sebbene vi siano segnali che ciò stia accadendo, questa argomentazione semplifica e delegittima una serie di importanti richieste sociali.

JULIO CÉSAR GUANCHE, giurista, storico e autore di libri nell’area delle scienze sociali, afferma che le proteste sono state spontanee, eterogenee, sebbene siano state, in parte, attivate da gruppi interessati alla destabilizzazione di Cuba, «guidati da un politica crudele degli Stati Uniti, che non hanno eliminato nessuna sanzione né con Joe Biden né durante la pandemia». Tuttavia, avverte, la società cubana «non è un burattino comandato dall’estero». «Bisogna riconoscere che abbiamo un popolo che ha bisogno di essere ascoltato e che ha il diritto di manifestare». Secondo lo storico, ridurre i manifestanti a criminali e a mercenari è una narrazione «escludente, classista e razzista», dato che la maggior parte delle proteste si è svolta in quartieri impoveriti, per lo più occupati dalla popolazione nera.

PER LÓPEZ HERNÁNDEZ, internet è stato il catalizzatore di un forte malcontento sociale. «Stavamo già assistendo a una povertà crescente, un debito estero allarmante, blackout, una crisi nell’approvvigionamento di prodotti di prima necessità e di medicinali. Ci sono settori molto vulnerabili a Cuba, quartieri molto poveri, e tutto ciò è alla radice di questa esplosione sociale», riferisce. Il soffocamento assoluto è arrivato con la pandemia, che ha sospeso l’attività turistica, principale fonte di reddito per l’economia cubana.

La disuguaglianza sociale, aggravata dalla pandemia, è uno dei punti centrali nello scenario di crisi. Come ha spiegato Guanche al manifesto, questo è un problema comune a tutta l’America Latina, in cui Cuba, durante alcuni periodi, è riuscita a fare progressi, ma che il momento attuale ha riportato indietro. «Negli anni ’80 siamo stati tra i primi in America Latina secondo il coefficiente di Gini (che misura la disuguaglianza sociale). Nel 2016 eravamo scesi a metà classifica», racconta lo storico.

PER LA COORDINATRICE di La Joven Cuba, il modello del socialismo burocratico è alla radice delle difficoltà attuali e avrebbe dovuto essere riformato dopo la caduta del socialismo europeo. «Avremmo dovuto allontanarci da un modello che era crollato per ragioni storiche simili. Ma nel 2011 il rapporto con Venezuela ha fatto sentire più forte il governo cubano, allineandosi a un Paese che poteva sostenere quel vecchio modello», dice.
Ciò, sommato al ritardo nell’ottemperare alle determinazioni concordate sotto l’amministrazione di Raúl Castro per la riforma dell’economia cubana, dal 2008, ha aggravato la situazione.

Júlio César Guanche sottolinea, inoltre, che la disuguaglianza si manifesta per specificità regionali, di genere, identitarie e di colore, nonostante l’impegno dei movimenti sociali interessati, che sono riusciti a organizzarsi per diversificare l’agenda pubblica e politica. Tuttavia, l’agenda specifica per la giustizia sociale non ha ricevuto lo stesso spazio in quanto non ha avuto soggetti-attori capaci di portare avanti le relative richieste. «Era un’agenda che dipendeva molto dallo Stato e dai suoi ritmi. E con ciò ha accumulato un grosso problema di rappresentazione», osserva Guanche.

IL TEMA DELLE DISUGUAGLIANZE e dell’impoverimento è stato quello meno presente nelle risoluzioni dell’VIII Congresso del Partito Comunista, nell’aprile di quest’anno, secondo López Hernández.
«Solo il 13% delle proposte precedentemente avanzate per la riforma dell’economia è stato mantenuto nell’VIII Congresso», commenta. Per gli specialisti, l’unica soluzione possibile è il dialogo. «Il governo deve ascoltare le persone. Sono tanti gli economisti, i sociologi, che da anni mettono in guardia sui crescenti problemi, senza essere ascoltati», dice la storica.