Come testimoniano le gravi turbolenze che dai mercati azionari asiatici si stanno estendendo a quelli occidentali, l’anno nuovo eredita uno scenario gravido di incognite che i sintomi positivi non bastano a fugare. La decelerazione della Cina (al decimo decremento consecutivo del Pil e in cui si sono accumulate immense bolle nei settori immobiliare, bancario, finanziario) e dei paesi emergenti (con mercati che valgono il 60% del Pil mondiale e che assorbono metà delle esportazioni europee) si sta traducendo in pesante rallentamento dell’incremento del commercio mondiale.

In Europa continua ad aleggiare lo spettro della deflazione e rimane elevato il gap tra i livelli produttivi effettivi e quelli che si sarebbero raggiunti in assenza di crisi. La significativa ripresa che si registra negli Usa non è tuttavia tale da imprimere un netto impulso alle retribuzioni interne, la cui compressione è, invece, alla base di un paradossale incremento dei profitti e dei guadagni dei possessori di azioni, i quali – in mercati azionari mantenuti molto effervescenti dalle politiche monetarie “non convenzionali”, volte a creare liquidità, adottate dalle Banche centrali di tutto il mondo – hanno conosciuto il livello più alto degli ultimi due decenni.

Ma l’indicatore più eloquente della persistente drammaticità della situazione sociale è quello occupazionale: in tutto il mondo l’inoccupazione giovanile e femminile si è allargata paurosamente, la disoccupazione di lunga durata supera l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ’70, la precarietà è cresciuta esponenzialmente, in Italia raggiungendo il picco storico del 15%. La questione del lavoro è davvero la linea di faglia su cui tornano a passare discriminanti fondamentali, perché attorno ad essa si configura una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo.

In questo contesto opera un nesso strettissimo tra creazione di lavoro e rilancio degli investimenti pubblici diretti (assai più importanti della semplice riduzione delle imposte). Questa è la convinzione del grande economista Anthony Atkinson che, con singolare congiunzione di “spirito di ottimismo” e di determinazione, nel suo recente, bellissimo Diseguaglianza. Che cosa si può fare (Cortina Editore), deplora lo «stato del pensiero economico contemporaneo» tutto concentrato sul mercato del lavoro e assai disattento al mercato dei capitali, denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni), invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) della semplice insistenza sull’elevamento dell’istruzione della forza lavoro, proposte «che ci richiedono di ripensare aspetti fondamentali delle nostre moderne società, di interrogarci sulla profondità e l’estensione delle nostre ambizioni, di respingere (to cast off) le idee politiche che hanno dominato i decenni più recenti».

Atkinson – padre spirituale di una generazione di ricercatori sulle diseguaglianze, compreso Piketty che, infatti, gli tributa grandi riconoscimenti – prende di petto il problema della diseguaglianza, interrogandosi sull’intreccio tra questioni di eguaglianza e questioni strutturali, tra problemi di redistribuzione e problemi di allocazione. In questo è più avanzato dello stesso Piketty, il quale si concentra su una considerazione delle diseguaglianze come problema prevalentemente distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Atkinson non nega certo che la redistribuzione sia questione gravissima. Ma ha profonda consapevolezza della strutturalità degli aspetti problematici del capitalismo che essa mette in gioco: ad esempio, posto che la “genialità”, se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare, per sopperire alla caduta del tenore di vita conseguente alla compressione dei salari, un nuovo elemento autonomo di domanda – il consumo finanziato con debito -, oggi il problema cruciale è intervenire politicamente su quell’intreccio tra assetti produttivi, finanza e redistribuzione che ha creato un elemento autonomo di domanda sfociato in sovraconsumo e in alterazione della dinamica dell’investimento a vantaggio della finanza e a svantaggio dell’economia reale. E questo è un problema di allocazione e di struttura.

Con il neoliberismo, dunque, Atkinson si misura fino in fondo. Se le diseguaglianze non sono un destino naturale, se esse sono incapsulate in economie e società «costruite socialmente», sono il frutto di scelte politiche. Per affrontarle con proposte valide per il presente e per il futuro dobbiamo «apprendere dal passato», ponendoci due domande: 1) perché la diseguaglianza è caduta nel secondo dopoguerra in Europa? 2) Perché il trend egualitario è stato rovesciato in uno disegualitario a partire dal 1980?

Le risposte di Atkinson sono nette. I fattori maggiormente esplicativi del periodo di riduzione delle diseguaglianze sono tutti politici: «il welfare state e l’espansione dei trasferimenti pubblici, la crescita della quota dei salari sul valore aggiunto dovuta alla forza dei sindacati, la ridotta concentrazione della ricchezza personale, la contrazione della dispersione salariale come risultato di interventi legislativi dei governi e della contrattazione collettiva sindacale». E altrettanto politiche (anche se di segno opposto) sono «le ragioni che hanno condotto a un termine il processo di equalizzazione, rovesciando nel loro contrario i fattori equalizzanti»: tagli del welfare state, declino della quota dei salari sul valore aggiunto (con una responsabilità specifica dell’incremento della disoccupazione, che dalla fine degli anni ‘70 fu vertiginoso), crescente ampliamento dei differenziali salariali, minore forza sindacale, minore capacità redistributiva del welfare e del sistema di tassazione.

La radicalità dell’analisi conduce Atkinson a un’analoga radicalità delle proposte per combattere le diseguaglianze. Per esempio la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione, e ad enfatizzare la dimensione umana della fornitura di servizi specie se pubblici, nella convinzione che le scelte delle imprese, degli individui e dei governi possano influenzare l’indirizzo della tecnologia (a sua volta influente sulla distribuzione del reddito). O quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un «codice etico», un «codice retributivo» con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito».

Si tratta di embrioni di un «nuovo modello di sviluppo» che fanno perno sul rilancio del lavoro e della «piena e buona occupazione», non in termini irenici però, o indifferenti alle grandi trasformazioni in corso, ma nella acuta consapevolezza che la loro intrusività – la loro «rivoluzionarietà» – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society, lasciare libero spazio alla quale, però, equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe, anche e soprattutto in termini disegualitari.