Henry Moore, dalla serie “The Artist’s Hands”, 1981

 

Già alla notizia della mostra intesa per illustrare gli esiti finali dell’indefessa attività grafica di Henry Moore – esposizione allestita a Firenze negli spazi ampi e fin troppo vuoti del Museo Novecento, fino al 18 luglio – la mente era corsa alle pagine finali della lussuosa monografia dedicata ai disegni dello scultore da sir Kenneth Clark, sulla metà degli anni settanta: volume Thames and Hudson che, nell’alternanza munifica di tavole a colori e foto in bianco e nero, si proponeva come un’occasione celebrativa volta a guidare il lettore verso aspetti meno in evidenza del colossale corpus di uno dei massimi testimoni della Modernità.
Nel decimo capitolo, lo storico dell’arte laureato – interlocutore di rango per fama e prestigio internazionale, all’altezza dell’oggetto della sua stessa analisi – reinseriva infatti Moore in un canone ben definito, a uso e consumo del pubblico distratto o troppo convinto del mito di un Novecento originale: «se non fosse stato un maestro di quella pratica che la Firenze del Quattrocento ha definito ‘disegno’ – con questo significando qualcosa di differente da una semplice, disinvolta abilità imitativa – l’invenzione dell’artista, il dialogo fra le sue idee non avrebbero garantito alla scultura da questi prodotta la sua consistenza eternizzante. Le immagini devono essere vagliate dalla disciplina del disegno… È questa consapevolezza…che accosta i fogli di Moore alle elette testimonianze grafiche del Rinascimento».
Certo Clark, nel vergare righe tanto apodittiche, aveva in mente le prospettive infinite aperte dall’allora rrecente antologica al Forte Belvedere, evento mondano e critico in grado di segnare una stagione culturale fra Italia e Inghilterra con riverberi di enorme portata. Poteva tuttavia pure contare su un rinnovato interesse manifestato allora dal maestro di Castleford per l’indagine concettosa, per l’esercizio libero del tratto condotto sulla carta: una dedizione a tal punto rinvigorita da imporre al volume del ’74 un lungo poscritto, dettato dallo stesso Moore, per spiegarne moventi e ragioni, nell’intento di chiarire i nuovi risultati raggiunti dal suo operare e di affiancarli – nell’analisi ermeneutica – a quelli ormai storicizzati.
È un’ulteriore coincidenza che colpisce attraversando le sale dello Spedale delle Leopoldine. La maggior parte dei prestiti – almeno per quel che riguarda le prove bidimensionali – datano infatti all’ultimo quindicennio di vita dello scultore, offrendo una galleria ‘poco vista’ del suo stile tardo e confrontando il visitatore con nuovi temi o funzioni diverse attribuite allo strumento grafico. Più che episodi fra cui la laboriosa tessitura di grandi arazzi prodotti dal West Dean Studio a cavallo degli anni settanta e ottanta, stupisce così l’autonomia dei fogli selezionati per il Museo Novecento nel quadro di una scelta condotta sugli oltre 3500 pezzi riconducibili all’arco di tempo rappresentato.
Vi appare evidente come il disegno fosse a quel punto divenuto una pratica sciolta dalle fasi ideative della creazione tridimensionale, affidata sin dagli anni sessanta alla frequente modellazione di bozzetti plastici: la serie a penna sfera delle Mani (1981-’82), quella dei paesaggi ad acquerello fra montagne e marine d’eco turneriana (1979-’83) assurgono così a una purezza d’ispirazione che tocca vette di lirismo nervoso, di tesa compiutezza formale, in tutto evocatrici di esiti noti, ad esempio la tragica sequenza degli Shelters.
Anche il portfolio titolato Elephant Skull (1969-’70) – disposto con bella soluzione d’allestimento attorno al grande cranio pachidermico donato allo scultore da Julian e Juliette Huxley nel 1968 – assume dunque il senso di un introibo efficace, pur esorbitando dalla linea coerente della cronologia perseguita dalle scelte curatoriali di Sebastiano Barassi e Sergio Risaliti: proprio quel portfolio d’incisioni, già presentato nel ’72 a Firenze presso la Galleria del Bisonte, annuncia alcuni sbocchi del linguaggio mooriano, riscontrabili nelle carte posteriori, propense a un’accentuazione drammatica del chiaroscuro, a un intensificarsi della tenebrosità filamentosa del tratto.
Alla luce di considerazioni siffatte, appare conseguente che la seconda sezione della mostra indugi sui rapporti dell’artista con l’ambiente toscano. A parte il viaggio di giovinezza a Firenze e i primi contatti con le cave carraresi per l’esecuzione della monumentale Reclining Figure destinata alla sede parigina dell’Unesco sulla metà del secolo, è fra settimo e nono decennio che vanno rafforzandosi le relazioni di Moore con il milieu fiorentino, con l’apice appunto della personale del ’72 inaugurata dalla principessa Margareth e favorita da uno stupendo successo di pubblico. Servono bene a tale scopo illustrativo gli scatti familiari di Giorgio Cipriani, ma anche i contributi generosi delle collezioni private presenti sul territorio, custodi di memorie e memorabilia legate allo scultore (dalla raccolta Gori a quella Veronesi); anzi è proprio in questo segmento che i rimandi a un contesto si fanno stringenti nell’ottica di un progetto che scivola dalla ‘monografica’ nell’autobiografia cittadina.
Nel racconto del tutt’altro che idillico, eppur caparbio, amore di Moore per Firenze, la mostra si trova pertanto a esemplificare il difficile confronto del capoluogo toscano con la contemporaneità; uno scontro che trova saldo fondamento nella Storia, nella stessa celebratissima tradizione municipale, ma cozza con i limiti imposti da un simile sguardo retrospettivo, ostacolando troppo spesso una compiuta visione del futuro, o dei molti futuri possibili.