Tutte le volte che ci troviamo davanti ai disegni di Frank Lloyd Wright dobbiamo rallegrarci e riflettere, di là dell’attrazione che esercitano, sull’energia che infondono in chi li ammira. È come se volessero incoraggiarci nel credere che l’architettura può essere ancora un antidoto per debellare gli «amari frutti» della città. Il disincanto viene allora meno e ci si abbandona a quei «sistemi e forme degni dell’ideale democratico», come lo stesso Wright scrisse, per «desiderio di civiltà», così da non farci scoprire dagli archeologi del futuro come «cornacchie dotate di psicologia scimmiesca».
La mostra torinese Frank Lloyd Wright tra America e Italia (fino all’1 luglio), alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, giunge in ritardo di un anno dalle celebrazioni per i 150 anni della nascita dell’architetto statunitense. Si tratta di un congruo numero dei suoi disegni originali tra quelli, circa 450, che sono stati esposti al MoMA di New York (Frank Lloyd Wright at 150: Unpacking the Archive), l’istituzione che dal 2012 li custodisce, trasferiti dall’Avery Architectural & Fine Arts Library della Columbia University. Il focus sull’Italia è un cortese e circoscritto omaggio che andrà meglio in futuro approfondito: ben oltre la vicenda veneziana del Masieri Memorial, rimasto sulla carta, e dell’APAO, l’Associazione per l’Architettura Organica creata da Zevi appena di ritorno nel dopoguerra dall’America. A tal riguardo la sezione «La mostra italiana», posta alla fine del percorso espositivo, raccoglie documenti interessanti della visita di Wright a Firenze in occasione della sua retrospettiva a Palazzo Strozzi nel giugno 1951, e poi del suo soggiorno a Venezia. Un peccato non averli ritrovati tutti in catalogo (Corraini Edizioni), che purtroppo delude per la riproduzione ridottissima dei pregevoli disegni e l’assenza di un pur minimo apparato bio-bibliografico. Tuttavia, anche se le «note» di Jennifer Gray, curatrice della mostra torinese e co-curatrice di quella newyorkese, avrebbero meritato un altro editing e formato editoriale per il catalogo, la mostra si apprezza per la perfetta sintesi della poetica del maestro di Taliesin.
Inizia con la serie delle case in Praire Style, lo stile della «prateria», che dalla Winslow House (1893) giunge alla Robie House (1908): tetti poco inclinati, sviluppo orizzontale e aperto della pianta, distribuzione asimmetrica delle funzioni, pattern astratti per la decorazione. In mostra queste splendide case realizzate tra Chicago e i suoi dintorni, sono illustrate dalle litografie tratte dal portfolio pubblicato nel 1910 dall’editore berlinese Wasmuth. La loro presentazione in prospettiva e con tratto sottile rimanda alle stampe giapponesi, impreziosite di inserti in oro e colori tenui. Sappiamo quanto Wright amasse Hokusai, Gakutei o Shinsai, ma soprattutto riconosceva alla bellezza della xilografia giapponese la funzione morale di «risvegliare la coscienza artistica occidentale» (The Japanese Print, An Interpretation, 1912, tradotto da Electa). La preparazione del portfolio avvenne durante il suo lungo soggiorno a Fiesole. Sulle colline che guardano Firenze egli comprese «un nuovo tipo di unità organica – come scrive la Gray – che non dipendeva più dai piani convenzionali e dalle linee geometriche». Al cospetto del paesaggio toscano capì la naturale integrazione dell’architettura minore con l’ambiente e in quelle «strutture indigene» ravvisò l’autentico significato del loro riflesso con la «vita sentimentale della gente».
Quali materiali impiegare per riprodurre il continuum spaziale tra edificato e lambiente circostante vissuto in Italia è l’oggetto della seconda sezione, che tratta dell’uso innovativo del calcestruzzo in blocchi (concrete block) e che si apre con la gigantografia della Alice Millard House (1923), mimetizzata tra gli eucalipti del giardino con i suoi blocchi cementizi dai motivi fitomorfici. Datati agli anni venti, si riferiscono a questa tecnica i complessi edilizi di rilevanti dimensioni, ma purtroppo mai costruiti, quali il Doheney Ranch Resort, esteso ai piedi delle colline di Santa Monica, o il San Marcos-in-the-Desert Resort Hotel (1928). Un frammento di quei monumentali progetti è la Charles Ennis House (1924) a Los Angeles che sembra fuoriuscita dal terreno granitico su cui sorge.
Tuttavia è davanti ai disegni di quell’«unicum, tonante e ciclonico», della Fallingwater (1934), la «Casa sulla cascata» dei Kaufmann, che l’architettura wrightiana, come riconoscerà Zevi, «contagia e magnetizza la roccia, l’acqua, il dirupo boschivo», realizzando la perfetta comunione con l’ambiente. La «rinascita» degli anni trenta è documentata dall’Edificio Uffici della Johnson Wax , 1936, a Racine, nel quale Wright precisa, con le celebri colonne a fungo, la sua concezione dei piani a sbalzo in cemento. La metafora biologica seguirà Wright anche nella progettazione di una serie di grattacieli, immaginandone la sagoma simile a quella di una radice: stretta in basso e larga in alto. È un’idea già visibile nella prospettiva slanciata del progetto irrealizzato della St. Mark’s-Tower in-the-Bouwerie, 1927, a New York, che troverà una soluzione, dopo più di venti anni, a Bartlesville nella Price Tower (1952). La mostra termina con il Salomon Guggennheim Museum, 1943: la spirale candida e rigonfia della galleria Wright definì la sua «onda incessante», metafora del suo assiduo agire utopico e creativo