Svolta nella vertenza Almaviva, il più grande licenziamento collettivo degli ultimi 25 anni che lo scorso 22 dicembre portò alla chiusura della sede romana e alla perdita del posto per i 1.666 addetti call center – avallato dal governo che quella notte al ministero dello Sviluppo economico fece pressioni indicibili sugli Rsu di Roma perché accettassero la decurtazione dello stipendio, accusandoli poi di aver causato il licenziamento. Il giudice del tribunale del lavoro di Roma Umberto Buonassisi ha dato «accoglimento totale» al ricorso di 153 lavoratori condannando l’azienda «a reintegrare gli stessi lavoratori e a corrispondere loro a titolo di risarcimento danni tutte le retribuzioni maturate dal dì del licenziamento» per un importo stimato di circa 3 milioni.
SI TRATTA DELLA PRIMA sentenza di questo tipo dopo che vari ricorsi di lavoratori non erano stati accolti. Ma – come osserva l’avvocato Pier Luigi Panici, estensore del ricorso accolto – «si tratta della sentenza di gran lunga più argomentata e farà sicuramente giurisprudenza anche nei ricorsi in appello per gli altri lavoratori».
DA PARTE SUA L’AZIENDA annuncia che «mantenendo ferma la convinzione del proprio corretto operato, darà ovviamente attuazione all’ordinanza – riammettendo i lavoratori presso le sedi disponibili, tenendo conto che il sito operativo di Roma è chiuso».
LA SENTENZA È UN VERO ATTO di accusa nei confronti dell’azienda e del governo. Nelle 35 pagine il termine «discriminazione» o «discriminatorio» è citato ben 12 volte per spiegare come «la scelta di Almaviva, dovuta appunto al rifiuto dei lavoratori della sede di Roma di accettare la lesione dei loro più elementari diritti» – il verbale di accordo che riduceva il salario di circa il 17 per cento bloccando scatti di anzianità e Tfr e prevedeva controlli a distanza in deroga perfino al Jobs Act, sottoscritto invece in extremis dagli Rsu di Napoli – «si risolve in una vera e propria illegittima discriminazione: chi non accetta di vedersi abbattere la retribuzione in spregio all’articolo 36 della Costituzione (diritto ad una retribuzione dignitosa) viene licenziato e chi accetta viene invece salvato. Un messaggio – scrive il giudice – davvero inquietante anche per il futuro».
«La sentenza ferma la barbarie – continua Panici – . Comportamenti discriminatori così gravi, avallati da governo e sindacati nazionali, volevano infliggere una punizione collettiva ai lavoratori di Roma in modo che quelli delle altre sedi sapessero cosa li aspettava se non avessero accettato la perdita dei diritti. Il giudice ha rigettato l’alternativa fra legalità e occupazione che avrebbe dissolto lo stato di diritto. Una alternativa che le imprese hanno iniziato ad imporre con Marchinne da Pomigliano (Panici riuscì nel 2012 a far riassumere 145 iscritti Fiom, ndr) in poi e che ora potrebbe finalmente interrompersi».
NEL DIBATTIMENTO della causa è stato dimostrato infatti come Almaviva non ha perso alcuna commessa di call center e ha semplicemente sostituito i 1.666 lavoratori di Roma con altri 1.068 lavoratori assunti in somministrazione o co.co.co nelle sedi di Catania, Rende e Milano, risparmiando milioni.
PARALLELAMENTE AL RICORSO i lavoratori hanno presentato una denuncia penale accusando l’allora amministratore delegato (e oggi presidente di Almaviva Contact) Andrea Antonelli e la viceministra Teresa Bellanova di concorso in estorsione proprio per quello che accadde nella trattativa, specie in quell’ultima notte al ministero della Sviluppo economico alla scadenza della procedura di licenziamento collettivo.
Nella lettera di licenziamento ai lavoratori veniva proposta l’alternativa – per pochi posti – di trasferirsi a Rende. La stessa sede che poche settimane fa l’azienda ha imposto a 53 lavoratori milanesi. Tenuti ancora oggi – dopo la retromarcia dell’azienda – a fare corsi di aggiornamento, senza lavorare.
La sindaca di Roma e la Cgil chiedono ora la riapertura della sede romana e dell’intera vertenza.