Reperti da un altro mondo, cattedrali del divertimento dove dancefloor dismessi fanno solo immaginare l’opulenza di un tempo che fu. Disco Ruin, 40 anni di club culture italiana il film documentario diretto a quattro mani da Lisa Bosi e Francesca Zerbetto, prodotto da Sonne Film e K+ in collaborazione con Sky Arte (che lo proporrà prossimamente) presentato in pre apertura alla Festa del Cinema di Roma, è il racconto di quattro generazioni in un viaggio – visionario – dove assistiamo all’ascesa e al declino dell’Italia del clubbing. Un inizio preciso, il 1965, quando Giancarlo Bornigia, Alberigo Crocetta e Alessandro Diotallevi prendono in gestione un nuovo locale nel quartiere romano Trieste. Lo riempiono di macchine particolari e di una «buca dell’eco» e decorano il tutto con opere di artisti d’avanguardia come Claudio Cintoli, che realizzò in collaborazione con altri architetti un pannello murale (il Giardino per Ursula), Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Mario Schifano e Piero Manzoni.

COSÌ il Piper diventa non solo ladiscoteca più in voga di Roma, ma l’emblema del boom economico dei Sessanta. Il film sovrappone al racconto suggestioni, suoni – la bella colonna sonora scritta da Emanuele Matte ispirata agli stili delle varie epoche rappresentate – e di interviste ai protagonisti di quel periodo: «Volevamo – spiegano le due registe – rappresentare un paese che non esiste più e che in molti non si sono accorti che non sia mai esistito».

VOCI E TESTIMONIANZE di chi quegli anni li ha vissuti e in parte «inventati»: Ugo La Pietra, Paolo Martini, Carlo Antonelli e i dj «attori» di quelle notti, da Albertino a Ralf, Alex Neri, Leo Mas, si alternano a immagini di repertorio dove centinaia di persone danzano sui dancefloor dell’Histerya, della Baia degli Angeli, del Cosmic, dell’Imperiale e dell’Insomnia. Un excursus cronologico che dal liscio sull’aia trascina nelle balere emiliane e poi nelle discoteche veri centri di creatività: una sorta di Utopia che si muove su un crinale sottilissimo tra avanguardia e kitsch.
La disco music è il detonatore che scatena architetti e impresari, sorgono discoteche ovunque. Dall’America arriva l’eco dello Studio 54 durato lo spazio di due stagioni ma capace di accendere ovunque l’immaginario: nasce la Baia degli Angeli a Gabicce, paradiso estremo di edonismo che troverà la consacrazione negli ’80. Anni ancor più colorati e creativi, la notte diventa il luogo dove mascherarsi: nascono il Plastic e il Kinki ritrovi in cui si entra solo se si riconosce una personalità, un look originale. Un’estetica in qualche modo debitrice dell’universo gay, queer, transgender. E la musica cambia, il fresh pop e l’Italo disco di Gazebo e Den Harrow – Lsd e le droghe pesanti, ma irrompe l’Aids e la libertà sessuale diventa all’improvviso veicolo di morte.

I ’90 SEGNANO una svolta: house e techno imperano ma è il dj al centro di tutto: «Ho sempre avuto l’impressione- spiega Albertino – che noi fossimo un mondo parallelo: quello che io ho vissuto per tutto quel periodo non era la normalità, era un qualcosa di straordinario». La panoramica sui ruderi abbandonati nell’epilogo di Disco ruin è illuminante: quei luoghi dove un tempo la diversità era accettata e che si facevano spazi di appartenenza e sperimentazione artistica, si sono spenti. La club culture come posto mentale che si rinnova e si rigenera, cessa di esistere.