Chiusa in un ghetto, amata o odiata. Al punto che negli anni Settanta si organizzavano veri e propri falò dove dar fuoco nelle piazze, in un simbolico autodafè, album e 45 giri. Con punk che le dichiarò guerra al grido di «disco suck». Ma il tempo è galantuomo e a distanza di decenni quei pezzi tanto aborriti si trasformano – per uno strano gioco di corsi e ricorsi storici – in standard buoni per le radio quanto per il dancefloor. Resta la canzone, l’idea vincente di un riff. Ce lo spiegano anche i Daft Punk che con il loro recentissimo Random Access Memories hanno provato a raccontarci la storia del genere dance mescolandolo con mille sapori diversi, incontrando miti del passato (Moroder, Rodgers) e facendoli interagire con giovani dance/rockstar (il leader dei N.E.R.D. Pharrell Williams o i Panda Bear, Justin Casablancas). Ma sempre tenendo bene in mente che senza un’idea di base e una melodia ad hoc, non si va da nessuna parte… Ecco una classifica (cominciando dal fondo), del tutto opinabile e magari autocompiaciuta, di quelle che sono state – almeno nel gusto corrente – le dance song più eccitanti degli ultimi quarant’anni. A ognuno la sua…
Anita Ward
Ring My Bell (1979)
Impossibile resistere a questo unico hit in carriera della talentuosa vocalist nera dalla voce squillante e qua e là sospirante. Poi la certosina applicazione del produttore, nonché autore del pezzo, Frederick Knight mette bene in chiaro le intenzioni: ritmica diretta, refrain corposo e ritornello irresistibili. Con tanto di cimbali…
George Michael
Killer/Papa Was
a Rolling Stone (1993)
Venti anni fa per questo medley al fulmicotone dove mescolava l’hit di Seal e il classico dei Temptations fece smuovere più di un piedino. Arrangiamento brillante e una carica vocale (e sessuale) da lasciare sbalorditi. Per inciso, l’ex voce dei Wham! fu l’unico in quel tributo al caro Freddie (versione live su disco) a non sfigurare con la carismatica stella dei Queen…
Whitney Houston
I Wanna Dance
with Somebody (1987)
Giovanissima sorriso magnetico e dotata di un’ugola (e una tecnica) fuori dal comune capace di sbalordire il mondo. Nei dischi – smerciati come noccioline, alla fine mise in fila 100 milioni di copie – accanto alle ballad spesso troppo smielate, infilava qua e là perle r’n’b e all’inizio, una dance magari sempliciotta ma contagiosa. I Wanna Dance with Somebody è fra quest’ultime sicuramente la più ondeggiante e celebre, basso pulsante, tastiere molto ’80 è l’archetipo classico della pop dance anni Ottanta. Plasticosa ma implacabile.
Chic
Good times (1979)
I Daft Punk hanno ridato lustro a Nile Rodgers, ma questo strepitoso chitarrista non ne aveva certamente bisogno. Perché la sua storia leggendaria parla di album prodotti per pop/rockstar come Bowie, Madonna, Ferry, dischi da solista di notevole fattura per non dimenticare i fertili anni magici con gli Chic. Sul giro di basso della buonanima Bernard Edwards (l’altro Chic morto prematuramente) ci hanno costruito fortune molte dance band e rap ensemble come la Sugarhill Gang. E non solo (il riferimento è ai Queen)
Bee Gees
Night Fever (1978)
Brano che rende subito gli umori di un’era. Compariva nella colonna sonora de La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, 1977), il film con John Travolta. Uscito come singolo pochi mesi dopo la pellicola, sdogana per sempre il falsetto dei Bee Gees in ambito dance.
Beyoncé feat. Jay-Z
Crazy in love (2003)
Vera diva dell’r’n’b e tentacolare donna manager, Beyoncé ha più di un debito verso il dancefloor, come dimostra Crazy in Love prodotta da Rich Harrison che ha scritto anche per Jennifer Lopez, dove azzecca il sound e l’umore giusto. E soprattutto i continui rimandi alla scena funk anni settanta, con i fiati e le percussioni, ne fanno un irresistibile crossover.
Ancora adesso fra i classici della cantante, tanto che nella colonna sonora del Grande Gatsby curata proprio dal marito Jay-Z, Emeli Sandé ne dà una intelligente versione jazzy.
Brass Construction
Movin’ (1975)
Nota soprattutto per Movin’, la Brass Construction, composta da nove elementi e guidata da Randy Muller, autore e musicista che arrivava dalla Guayana, si fece spazio fra gli ammiratori della disco funk grazie a una originale miscela di fiati e percussioni. Otto minuti concentratissimi di disco funk e tantissima energia.
Testo ridotto all’essenziale, come per buona parte delle disco song, ma compensato da un ritmo assolutamente a orologeria.
Jody Watley
Looking for a New Love (1987)
Sembrava il primo di una lunga serie di hit per l’allora danzatrice e vocalist degli Shalamar – formazione funk disco piuttosto sofisticata negli ’80 – tanto che in molti avevano profetizzato per lei una carriera simile a quella di Janet Jackson o Madonna. L’ingrediente principe della ricetta era una funk dance pulsante, merito anche della fresca scrittura di André Cymone il bassista dei Revolution, all’epoca formazione di Prince. Mai più replicato con la stessa incisività.
Janet Jackson
The Pleasure Principle (1986)
A dispetto degli altri fratellini, vissuti all’ombra del carismatico Michael, Janet Jackson si è presto affrancata dal marchio di fabbrica familiare e ha saputo percorrere una strada autonoma, pur nell’ambito della funk dance. Questa è una traccia estratta dal fortunatissimo Control, prodotto da una delle «ditte» della produzione funk dance Usa, come Jimmy Jam & Terry Lewis.
Negli anni Janet è riuscita anche ad abbandonare la dance sintetica, fino ad arrivare a quello che è stato il disco della maturità, The Velvet Rope (1997), in cui in Got ‘til It’s Gone incontrava addirittura Joni Mitchell
Donna Summer
Love to Love You Baby (1975)
Non possono mancare in una classifica i sedici minuti di suite orgiastica con bassi pulsanti e cassa in 4/4 che hanno letteralmente rivoluzionato il mondo della disco prima e della dance in una fase successiva.
Il falsetto della diva di Boston conquista l’Europa per poi – da novella emigrante al contrario – conquistare gli Usa grazie al fiuto di Neil Bogart, il boss della Casablanca che convincerà Moroder ad allungare gli originari quattro minuti di canzone per farla trionfare nei club statunitensi.
Kylie Minogue
Can’t Get You Out
of My Head (2001)
La piccola voce da gattina di Kylie resiste nei cuori dei fan all’usura del tempo. Dopo i fasti pop con il trio dei producer inglesi Stock Aitken e Waterman, azzecca l’hit di una vita co-firmandolo con Cathy Dennis. Il ritornello è irresistibile. Per la cronaca, il pezzo venne remixato campionando alcuni segmenti di Blue Monday dei New Order…
Tom Tom Club
Genius of love (1981)
«Cosa farai appena uscito di galera?», recita l’incipit del pezzo del duo Tina Weymouth e Chris Frantz in (temporanea) «vacanza» dai Talking Heads. Se nell’immaginario popolare ha avuto maggiore impatto il loro proto rap Wordy Rappinghood, di sicuro Genius of Love, con tanto di coretti caraibici, ha funzionato così bene da essere utilizzato negli anni successivi come «campione» da Grandmaster Falsh e dalla prosperosa e gorgheggiante Mariah Carey…
Abba
Lay all Your Love on Me (1980)
Non solo incontrastati sovrani del pop, gli Abba a un certo punto della loro carriera intercettarono la disco e l’incontro fra le indelebili e un po’ appiccicose melodie del quartetto svedese e il ritmo in 4/4, generò classici come Dancing queen, e questa Lay all Your Love on Me – estratta da Supertrouper – con cui raggiunsero per la prima (e unica) volta il numero uno della dance chart di Billboard. A rendere immortale l’infatuazione disco, ci ha pensato Madonna – nel 2005 – incorporando l’irresistibile refrain sintetizzato di Gimme! Gimme! Gimme (A Man after Midnight) nell’hit di quell’anno Hang Up.
Soul II Soul
Back to Life (1989)
Da dj a dominatori della soul dance di fine anni Ottanta, Nelle Hooper (più avanti dietro il successo di Bjork) e Jazzie B realizzarono con i Soul II Soul una delle più belle e ispirate fusioni della scena dance che non temeva certo di osare in territori decisamente lontani dagli standard discotecari dell’epoca, inglobando stilemi di derivazione jazz. E poi la splendida voce di Caron Wheeler a caratterizzare e nobilitare tutto.
Donna Summer
Mac Arthur Park (1978)
Esempio del talento e della prolifica capacità di generare successi nel quinquennio magico della ditta Moroder/Bellotte/Summer. Mac Arthur Park, la ballad perfetta di otto minuti conosciuta per la voce di Richard Harris (interprete de Un uomo chiamato cavallo…) elevata a capolavoro disco-camp, adorata dalla scena gay (è uno dei punti di forza del musical Priscilla…).
Inizio lento, rispettoso dell’originale testo dell’autore Jimmy Webb e poi via, la danza inizia con Donna a volare su note altissime, le tastiere di Moroder e la chitarra di Jay Graydon a elaborare un ricamatissimo assolo nel lungo ponte strumentale.
La cantante insieme al suo team ci costruì una sorta di suite incorporando altre due canzoni: One of a Kind e, soprattutto, il singolo Heaven Knows con il gruppo dei Brooklyn Dreams. Incontro tanto riuscito che Donna si sposò il leader, Bruce Sudano…
Gloria Gaynor
I Will Survive (1978)
Intuizione di Freddie Perren e Dino Fekaris confezionata per la giunonica disco queen Gloria Gaynor, che aveva già all’attivo due cover di enorme successo Reach Out I’ll Be there (Four Tops) e Never Can Say Goodbye (Jackson 5). Ma con I Will Survive è passata alla storia. L’intro di piano e i 4/4 con fiati e archi che nella versione estesa durano ben otto minuti, a distanza di trentasei anni suonano bene come all’epoca.
Easy Going
Baby I Love You (1976)
La cultura gay domina i club e l’Italia è in prima linea con gli Easy Going, brioso trio dal nome «rubato» a un celebre locale omosex capitolino. Prodotti da Claudio Simonetti e Giancarlo Meo si involarono su per le classifiche del 1978 con un album che conteneva solo quattro lunghissimi brani.
Il più celebre, Baby I Love You, che si muove fra accenni funk e la ritmica tedesca di Moroder, venne inserito dal dj Dave Mancuso nelle playlist del club newwyorchese The Loft.
Daft Punk
Around the World (1997)
Protetti dai loro caschi i musicisti parigini Guy Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter, sono da un ventennio punto di riferimento per la scena dance. Moroder è il loro guru – nel nuovo disco lo hanno invitato e intorno a una sua intervista hanno costruito una lungo brano – e Around the World, con un video strepitoso di Michel Gondry attinge spudoratamente agli album robotici del producer altoatesino e a quelli dei Kraftwerk. Ma come suona bene…
Change
The Glow of Love (1980)
Mauro Malavasi meriterebbe davvero un monumento per essere riuscito laddove in tanti avevano fallito, portare della vera dance italiana negli Stati Uniti senza timori reverenziali. Inizia sperimentando cover disco (I’m a Man dei Traffic con i Macho) e poi arrivano i Change.
Pezzi concepiti in Italia e registati in America. The Glow of Love – spesso allegramente campionato – ha un asso nella manica in più, Luther Vandross alla sua prima apparizione vocale solista dopo anni come turnista.
Shannon
Let the Music Play (1983)
Successo dell’era post disco, con il quale la jazz vocalist Brenda Shannon Greene conquistò il suo posto al sole per una sola, irripetibile, stagione. A produrla Mark Ligger e Chris Barbosa, fra i più quotati della scena latin. Un frutto perfetto del synth pop dance anni ’80, tutta fremiti ritmatissimi, tastiere plasticose e beat fuso con elementi latini. Assolutamente stiloso, funziona anche adesso.
Michael Zager’s Band
Let’s all Chant (1978)
Nativo del New Jersey, un passato jazz ma il successo arriva con la disco. «Your body, my body everybody work you body» è il bridge che ricordano tutti, come l’attacco sincopato del ritornello «duap duap let’s all chant». Percussioni afrocubane, battiti di mano, un assolo di tromba. Eccessivo e vagamente kitsch, ma siamo ancora qui a parlarne.
Chaka Khan
I Feel for You (1984)
Un pezzo di Prince che Chaka – come tutte le interpreti di gran classe – trasforma in un classico che le si adatta come un guanto e che rende immortale con i celebri acuti al fulmicotone. Il tutto impreziosito dalla produzione di Arif Mardin, che officia il matrimonio riuscitissimo tra il funk incadescente del piccolo genio di Minneapolis e la sua musa perfetta.
M/A/R/R/S
Pump up the Volume (1987)
Il titolo è preso da un noto pezzo di Erik B & Rakim e inaugura il lungo periodo della cultura del sampling. Ma la canzone che suggellò la strana collaborazione fra la label inglese 4AD (Cocteau Twins, Dead Can Dance, insomma altri mondi sonori) e i djs Macintosh e Dave Dorrell, fu una sorte di ponte della cultura house a cavallo fra Usa e vecchio continente.
Michael Jackson
Billie Jean (1982)
In realtà tutto Thriller, l’album perfetto, poteva essere selezionato in questa lista ma Billie Jean – e questa strana commistione di generi sparsi fra dance, pop, e R&B – forse li incarna tutti. Quando ancora poteva permetterselo al riparo dagli scandali, poteva prendersela con le mille groupie che cercavano di incastrare lui e i fratelli Jackson in matrimoni… riparatori. Ma questa straordinaria traccia, superbamente prodotta da Quincy Jones, regala polifonie di tastiere e mille armonie che si sviluppano intorno alla canzone, con un approccio quasi disco – il basso suonato da Nathan East è un esecuzione live, senza interruzioni.
Madonna
Into the Groove (1985)
Sì, poi arrivarono Music, Vogue, Hang up e decine di altri titoli forse più adatte per un puro accanimento discotecaro, ma con Into the Groove, scritta da Madonna insieme a Stephen Bray, Madonna fa il passaggio definitivo da aspirante dance star a diva transgenerazionale. Ancora più eccitante il remix che ne fece due anni dopo Shep Pettibone in You Can Dance – una raccolta di singoli ritrattati da vari dj – che aggiunse un assolo di tastiera così perfetto che ancora oggi Madonna ripropone nei suoi faraonici tour.
Andrea True Connection
More, More, More (1982)
Protagonista di un unico grande hit, sulla linea della disco sexy che imperava a metà anni Settanta, Andrea True ha un passato da porno star. Ma questa traccia – registrata in Giamaica con la supervisione del produttore Gregg Diamond – non solo fa ballare, ma ha un retrogusto quasi malinconico, grazie a una nostalgica tromba che giganteggia tra un ritornello orgasmico e l’altro…
Loleatta Holloway
Love Sensation (1980)
Una voce forgiata nel gospel, tanto grande da non poter essere limitata solo al periodo disco e quello della label Salsoul. Love Sensation più che il brano in sé, vive su quella voce che toccava, spalancandosi in un urlo rabbioso, vette impossibili. Tanto epocale da essere ripresa e campionata in più occasioni. La prima – e la più celebre – dagli italiani Black Box (in Ride on Time).
Prince
Erotic City (1984)
Sempre a rischio censura, Prince ha giocato molto spesso con doppi sensi nei testi che rivestivano le lunghe cavalcate nel regno del funk. Erotic City è il suo forse più incadescente (e riuscito) esperimento da danzare nei dancefloor e… sotto le lenzuola. Il duetto fra la chitarra ritmica di Prince e il suo celebre falsetto è negli annali del genere.
Thelma Houston
Don’t Leave Me this Way (1976)
L’idea di riarrangiare il classico di Harold Melvin & The Blue Notes, venne al produttore Hal David mentre la riascoltava in un party. E così Don’t Leave Me this Way divenne il punto di forza di Anyway You Like It, il terzo album di Thelma Houston. Il tono drammatico e enfatico della cantante ben si adattava a testi come, «non posso sopravvivere, non posso vivere, senza il tuo amore». Con I Will Survive di Gloria Gaynor, che arrivò tre anni dopo, il dramma esistenziale arriva in discoteca…
Diana Ross
Love Hangover (1976)
Alla regina delle Supremes, la superstar della Motown, proprio non andava giù l’idea di trasformarsi in lasciva voce disco. Quando Berry Gordy – di concerto con Hal David – finalmente riuscì a convincerla a interpretare Love Hangover, le si aprirono nuovi orizzonti musicali, poi percorsi con ancor maggior successo quattro anni dopo con la complicità di Nile Rodgers. Il brano – scritto da Pam Sawyer e Marilyn Mac Leod – con quel suo incedere lento che si schiudeva in un ritmato beat su cui si poggiava la vocina languida ma intonatissima di Diana, era la risposta (vincente) a chi la definiva «prigioniera» di un soul lussuoso ma di maniera.
Donna Summer
I Feel Love (1977)
La storia del moderno pop parte da questo pezzo – per il quale lo stesso John Lennon fece i più sinceri complimenti a Donna e a Moroder. I Feel Love arrivò là dove gli esperimenti dei Kraftwerk non erano riusciti ad arrivare. Combinare l’elettronica glaciale di mille sintetizzatori – che all’epoca andavano programmati uno ad uno come ha confessato di recente il produttore altoatesino – con i toni caldi della discoteca e il pop, era impresa titanica. Ma le linee di basso e la voce in falsetto di Donna regalarono sei minuti di estasi ai patiti del dance floor. Trasportando il pezzo nel paradiso dei classici. E se forse oggi la musica dei Bee Gees o dei Tavares può suonare un po’ ageé, la modernità di I Feel Love resta inalterata nel tempo.