Il fascino irrisolto del trio islandese è quello, immutabile nel tempo. Melodie eteree e sognanti intonate dalla voce senza sesso, quasi come se un contralto mantenesse i cromatismi di un lancinante falsetto, del leader Jonsi. Quella dei Sigur Rós, che hanno pubblicato lo scorso giugno il loro settimo album in studio, Kveikur è una storia che si estende nell’arco di tre lustri durante i quali hanno in qualche modo mantenuto uno stile in cui si mescola la tradizione della musica nordica, evidenti citazioni progr che confluiscono in lunghe suite dall’andamento quasi mistico.
Insomma, possono piacere o non piacere, essere citati come esempio di mirabile profondità del suono o di elegia estrema della noia, ma non lasciare indifferenti. Dal vivo – poi – creano spettacoli e installazioni visive di rara maestria dando vita a un muro del suono che coinvolge gli spettatori, giunti a Capannelle per il terzo (e conclusivo) concerto in terra italiana, nell’ambito di Rock in Roma. Un impatto sonoro devastante curato quanto la parte coreografica, due schermi ai lati e uno dietro il palco dove vengono proiettati video e immagini di forte impatto bucolico.

La band regge la fuoriuscita del quarto elemento portante della band (Kjarta Sveinsson, il tastierista) e aggiunge fiati di supporto alla formazione d’archi. E il risultato è potenza e emozione al contempo, grazie anche al contributo di tamburi efficaci soprattutto nei quattro pezzi proposti dall’ultimo disco. Ma a esaltare i tredicimila dell’ex ippodromo sono le tracce storiche, le discese ardite e le risalite dei due classici Olsen Olsen e Hoppípolla, dal caratteristico epos e dalle atmosfere sospese e sognanti.