«Huston, ho un brutto presentimento»: la frase chiave di Gravity, il film di Alfonso Cuarón che ha inaugurato fuori concorso la 70/ma edizione della Mostra di Venezia, ci fa capire fin dalle prime scene che non si tratterà solo di usare del nastro adesivo per riparare pannelli di controllo in avaria. Il set non è più l’area protetta di un veicolo spaziale, ma è lo spazio profondo, dove non c’è forza di gravità e in quella enorme discarica che è diventato il cosmo si potranno trovare basi spaziali in disarmo e componenti di shuttle distrutte, lanciate in orbita alla velocità di migliaia di chilometri all’ora.
Il lavoro scientificamente messo a punto farà saltare tutte le procedure quando per una di queste collisioni il pilota e lo scienziato si trovano lanciati nel nulla. Il pilota Kowalski, George Clooney che si vedrà sempre e solo nella sua tuta completa di casco come un Buzz Lightyear e il dottor Ryan (Sandra Bullock), altro nome scelto non a caso, sono circondati all’inizio da un salottiero clima da stanza dei bottoni, collegati a terra non solo dallo staff, ma anche da una colonna sonora di musica country che, ricordiamolo, era arma letale per gli alieni. Fuori dalla navicella mentre lei è intenta a riavviare una scheda, lui si inebria della passeggiata nel nulla, roteante e agganciato alla sua prolunga, raccontando a quelli della base un po’ di fatti straordinari che gli sono capitati. Così, tanto per far passare il tempo in allegria, non perdere l’occasione di fare una battuta per alleggerire l’atmosfera e filtro per far intendere che Alfonso Cuarón e il figlio Jonas autori della sceneggiatura conoscono bene tutte le coordinate del cinema hollywoodiano.
Pur con tutte le resistenze al 3D è impossibile non restare affascinati dalla situazione di crescente pericolo quando un bolide in corsa annienta l’astronave e i due si trovano scaraventati nel nulla agganciati solo da quello che sempre più appare come un cordone ombelicale, prolunga che permette la comunicazione, in uno scenario difficile da immaginare, con soluzioni che il pubblico non ha la capacità di suggerire, dove tutto è perduto. E a quel punto perfino Clooney spegne la musica country, ma non rinuncia alla battuta: «Però bisogna ammettere una cosa, la vista è unica».
Così come una Soyuz era stata la causa del disastro perché aveva causato i detriti vaganti, un’altra nave spaziale russa abbandonata potrebbe essere la salvezza, si muovono per raggiungerla come in volo, con il poco propellente a disposizione nelle tute. Poi lei resta del tutto sola. Non è la prima volta che la fantascienza abbandona i suoi protagonisti nel nulla, Tarkovski ne fece da Lem uno stato mentale.
Mentre lo sguardo è catturato dai colpi di scena imprevedibili e sempre più incessanti (che dire dei comandi sui pulsanti in cinese?), si fa largo, senza prendere il sopravvento sulla pura avventura, il racconto morale che rimane sotto il controllo dell’ironia e della suspense. La sfida supertecnologica degli apparecchi utilizzati per simulare la mancanza di gravità («la scatola» la chiama Cuarón) grazie al quale è stato ottenuto anche il piano sequenza iniziale di diciassette minuti è decisamente vincente e perfino la minuscola lacrima che diventa una goccia rotonda che si fa strada verso il pubblico in sala perde la sua connotazione di disperazione per diventare sorpresa. Al pubblico anche se non ha familiarità con i misteri del cosmo, il film suggerisce che quando le avversità si susseguono e tutto sembra perduto, si possono chiudere gli occhi e abbandonare tutto oppure tenerli ben aperti, continuare a lottare e trovare una soluzione. L’importante è che poi avrai un’altra storia pazzesca da raccontare.
Proprio come si avverte nella messe rigogliosa nei 70 film da un minuto, un minuto e mezzo, firmati dai settanta registi che la Mostra ha invitato a realizzare nel programma Future Reloaded: il gioco è indovinare fin dalla prima inquadratura, a chi appartengono. Quattro repliche alla mostra e a fine festival si potranno rivedere in streaming sul sito della Biennale. Due su tutti: la sedia elettrica, la carrozzina altamente specializzata che avanza a fatica sui sampietrini, camera car di inaudita lucidità appartenente a Bertolucci (Scarpette rosse), il film politico di Haile Gerima, il regista etiope della Storia dei 3000 anni che incita i giovani registi africani a mostrare la loro storia, ancora incatenata, in ostaggio («a nessuno è permesso il ricordo») perché non si può pensare al futuro senza esorcizzare il passato.