In questi giorni di dolore pungente, non c’è stato modo, ancora, di mettere a fuoco lo specialissimo rapporto di Valentino Parlato con la cultura. Cultura in atto, la sua: non libresca né meditativa. Ogni lettura era subito giocata nella relazione sociale, nell’occasione giornalistica, nella condivisione amicale. Nutrito di autori settecenteschi, ha scritto Rossana Rossanda: più dalla parte di Diderot e Montesquieu (Lettere persiane) che di Voltaire. Del Settecento Valentino aveva anche l’habitus intellettuale: un ‘dilettante’, specie ormai rarissima, dunque la cultura non come definizione organica della persona, come assetto di pensiero formato, ma quale luogo aperto alla curiosità e alla scorribanda, bacino di possibilità, crocevia di incontri imprevisti. La sua intelligenza per accensioni, la sua scrittura secca e spezzata, il suo modo incursivo di intendere la battaglia politica erano tutt’uno con questo carattere aperto e frammentario della sua cultura.
Ma quel che rende Valentino ancora più singolare, è di essere riuscito, tale apertura, a farla coesistere con il sistema di pensiero marxista, al quale non ha mai smesso, pur nelle correzioni eretiche, di fare riferimento. Sul piano teorico questa coesistenza poteva dar luogo a contraddizioni e incongruenze, che egli però superava in un sol balzo, come Cavalcanti dinanzi agli importuni. Per l’opacità dell’attuale momento storico, è forse questa leggerezza, questa capacità di scarto, che più ci mancherà di Valentino.
Leggendolo alla piccola Valentina, sua terzogenita, si era incapricciato del Lazarillo de Tormes, della furfanteria per fame del principe dei picari, maestro di furbizia e di intelligenza funzionale. Lo deliziava che, con stratagemma, riuscisse a sottrarre, al padrone cieco, «bei pezzi di pane, pancetta e salsiccia»: l’unica strada possibile, in mancanza di coscienza di classe, ma quanto simpatica, vitale, reale, una forma dell’esistere che egli aveva sperimentato direttamente nella frequentazione del diseredato Meridione d’Italia. Del Lazarillo lo aveva anche colpito la prosa facile, lesta, asciutta, che ne fa, come è stato scritto, «specchio e luce della lingua castigliana», e ne fa anche, possibilmente, un modello sempre valido di giornalismo.
È stato ricordato a più riprese quanto piacesse, a Valentino, intrufolarsi in realtà culturali diverse, distanti, e trovare occasione per miscelarle con la sua. Forse per gli studi del figlio Enrico, era interessato alla storia dell’arte, non come Rossana che, allieva di Matteo Marangoni, ne avrebbe potuto fare il suo destino, ma nel modo empirico a lui proprio. Gli piaceva, naturalmente, Picasso, ma non era insensibile all’arte antica. Era il 1997 quando mi presentò, all’hotel Plaza, sir Francis Haskell, uno dei maestri della disciplina. Lo aveva conosciuto, non so quanto addietro, attraverso Enzo Crea, l’editore dell’Elefante, e subito si era creato tra di loro un moto di viva simpatia. Quando Valentino si allontanò un attimo per andare al bancone, Haskell mi confessò di provare meraviglia dinanzi a un tale genere di comunista. Figura illustre della cultura democratica inglese, egli, sin dagli anni della tesi di laurea sull’arte barocca, aveva frequentato abbastanza intimamente l’Italia e gli italiani, sapeva bene come il comunismo di casa nostra fosse diverso, e tuttavia Valentino gli appariva ancora più diverso.
Valentino era anche incuriosito dal mondo antico, sia il pensiero, sia la letteratura, sia – forse attraverso la prima moglie Clara Valenziano, archeologa classica – le vestigia artistiche e monumentali. Un ricordo impossibile, e possibile, è il viaggio con lui a Leptis Magna, vagheggiato e mai realizzato quando si trattava ancora di un luogo dello spirito. La lettura degli antichi era anche, naturalmente e marxisticamente, in funzione politica. Nonostante fosse intrinseco del circolo di Giorgio Colli, ho sempre avuto l’impressione che alla sapienza greca preferisse i latini, meglio avvicinabili. Colpiva il modo in cui si approcciava a uno studioso serio: nessuna reverenza; il desiderio, invece, di cogliere senza mediazioni intellettualistiche il nucleo del suo lavoro e, insieme, della sua persona.
Con non-chalance pubblicistica e gusto dell’effetto, gli studiosi si divertiva anche a stanarli e a metterli in scena sulla pagina. Una volta si era aperta una violenta polemica fra Antonio La Penna e Luciano Canfora, che di Valentino è stato amico dialogico. Era giunto in redazione un articolo di La Penna, piuttosto offensivo verso Canfora, e, incerti se e come pubblicarlo, lo sottoponemmo a Valentino, il quale non fu sfiorato da dubbi: pubblicare. Poi, quando gli mostrammo due titoli possibili, uno più tiepido uno più feroce, Valentino appoggiò il più feroce. Canfora querelò La Penna, ma, ora può saperlo, all’origine di quella querela c’è stato, in parte, Valentino. Si poteva avventurare su terreni insidiosi, perché non poteva credere che esistessero contrasti insanabili, e questo è stato il suo umanesimo dei contrari.