Tre agricoltori del Delta del Niger saranno risarciti dalla compagnia petrolifera Royal Dutch Shell per i danni subiti dai continui sversamenti di petrolio che hanno reso sterili i loro terreni e avvelenato le vasche per gli allevamenti del pesce. Lo ha stabilito una sentenza emessa ieri dalla Corte d’Appello dell’Aja, in Olanda, che ha ritenuto la casa madre Shell responsabile dell’inquinamento da idrocarburi causati dalla sussidiaria Shell Nigeria. Inoltre, Shell dovrà garantire un sistema di vigilanza degli impianti per evitare che gli episodi di inquinamento si ripetano.

La sentenza è di quelle che fanno storia, almeno per il diritto ambientale. È la prima volta che un tribunale ritiene una multinazionale, nel caso specifico olandese, responsabile di obbligo di vigilanza (duty of care) all’estero. Come Shell, ora anche le altre compagnie petrolifere presenti in Nigeria, tra cui Eni, Total, Chevron ed Exxon, potrebbero essere chiamate alle loro responsabilità per i danni ambientali arrecati al fragile ecosistema del Delta del Niger, documentati anche dal Programma Ambientale delle Nazioni Unite, oltre che da diverse associazioni ambientaliste.

Non è nota l’entità del risarcimento, che verrà stabilita dalla Corte nei prossimi mesi, però la sentenza è una grande vittoria, inseguita per ben 13 anni dalle comunità nigeriane affiancate in questa complessa e coraggiosa causa legale dall’associazione ambientalista Friends of the Earth Olanda (Mileudefensie). «Alla fine, c’è un po ‘di giustizia per il popolo nigeriano che ancora subisce le conseguenze del petrolio della Shell – ha esclamato uno degli agricoltori nigeriani, Eric Dogh, della comunità di Goi, in collegamento Zoom con gli uffici di Friend of the Earth per commentare la vicenda – ma è una vittoria agrodolce, dal momento che due dei querelanti, compreso mio padre, non sono vissuti abbastanza per vedere la fine di questo processo. Però questo verdetto ci ridà un po’ di speranza per il futuro».

Visto dall’Aja, il verdetto dimostra che «anche le società europee devono comportarsi in modo responsabile all’estero», ha commentato l’avvocata olandese degli agricoltori nigeriani, Channa Samkalden, perché è evidente che Shell ha applicato alla Nigeria un doppio standard: in Olanda, un disastro ambientale come quello creato in Nigeria non sarebbe stato tollerato. Dagli anni Sessanta, da quando vennero scoperti immensi giacimenti di petrolio e gas, milioni di persone che vivono nel Delta del Niger subiscono le conseguenze dell’inquinamento causato non soltanto da Shell. Ogni anno 16.000 bambini muoiono per cause ambientali e l’aspettativa di vita nel Delta è di 10 anni inferiore rispetto al resto della Nigeria.

Forte di questa sentenza, Friend of the Earth chiede ora a gran voce alla Commissione europea una nuova legislazione che renda le aziende responsabili dei danni che possono causare quando svolgono attività all’estero, affinché le normative che valgono sul suolo europeo vengano rispettate anche altrove, soprattutto nella sfera del diritto ambientale e del rispetto dei diritti umani. Shell ha fatto di tutto in questi anni per sfuggire al giudizio della giustizia olandese. La sua difesa ha sempre sostenuto che gli sversamenti di petrolio dai suoi impianti erano dovuti a sabotaggi, e non alla scarsa manutenzione delle tubature e dei pozzi e alla mancata vigilanza delle strutture. Inoltre ha cercato di dimostrare di essere estranea alle politiche industriali di Shell Nigeria (che possiede al 100%), ma ai giudici sono state mostrate prove inequivocabili. «Le vittime di inquinamento ambientale, land grabbing o sfruttamento ora hanno maggiori chance di vincere le loro battaglie legali per veder riconosciuti i loro diritti – ha commentato il direttore di Milieudefensie, Donald Pol – questo è un chiaro segnale alle multinazionali che operano senza scrupoli nei paesi in via di sviluppo». Shell è nel mirino di Friend of the Earth anche per le sue responsabilità legate ai cambiamenti climatici: 17mila cittadini olandesi hanno fatto causa alla multinazionale perché continua a estrarre petrolio e gas come se la crisi climatica non esistesse e l’Accordo di Parigi sul clima non fosse mai stato siglato. La sentenza è attesa in maggio.