Noi qui ci siamo sposati. È stata una cerimonia particolare, un matrimonio al tempo di Shengen!». Dottorando di Belle arti a Roma, 33 anni, Matteo lancia uno sguardo divertito e complice a Basak, che viene da Istanbul e ha 26 anni. Sono due dei trenta esploratori urbani che a luglio per dodici giorni hanno attraversato tre quartieri simbolo della periferia nell’ambito di Roma non esiste, un «grande rituale nomade per la città di Roma e i suoi molteplici abitanti, umani e non-umani».
Così lo presentano gli artisti Leonardo Delogu e Valerio Sirna, che nel 2013 hanno inaugurato il progetto di ricerca Dom – e da tre anni conducono le esplorazioni urbane di Mamma Roma per l’Estate romana.

INSOLITE COMUNITÀ
Il «qui» del matrimonio è il parco della Torricella, un ampio pezzo di terra sottratto alla speculazione anni fa e trasformato in un accampamento temporaneo. Tende disposte a semicircolo, docce da campeggio, uno spazio-cucina, lunghi tavoli di legno e poco più in là due casse per la musica. Siamo a Serpentara, quartiere a nord-est della capitale, stretto tra la via Salaria e il grande raccordo anulare, l’anello di scorrimento che lega e divide Roma. Più a sud c’è il Tufello, a nord la borgata di Fidene. Sul prato, tra piedi scalzi e schiene rigate di sudore, a ballare ci sono anche adolescenti elettrizzati dalla presenza di questa insolita comunità nomade e residenti di lungo corso. Gente che vive qui dai primi anni 90.
Costruito tra il 1979 e il 1989, tra i quartieri previsti dal primo Piano di edilizia economica popolare del 1964, Serpentara – con il suo «cuore» circolare da cui partono radialmente una serie di edifici lineari – è considerato periferia, una di quelle descritte come immobili, apatiche o marcescenti, protagoniste delle cronache solo quando criminali o, al meglio, neglette. «Sono immagini stereotipate, artificiali, di una Roma che non esiste, appunto», sostiene Matteo, per il quale il discrimine tra legale e illegale, pubblico e privato, centro e periferia, è valido solo per le carte bollate, per i protocolli amministrativi, per l’architettura compiaciuta dell’esistente o «per legittimare l’idea perbenista del decoro da una parte e del degrado dall’altra».
L’accampamento dei trenta esploratori – quattro notti a Corviale, quattro a Serpentara, tre a Tor Bella Monaca – serve a rimescolare le carte. «È un rituale di liberazione di uno spazio pubblico, il mezzo per ricostruire forme di prossimità, un dispositivo per testare ciò che è scandaloso», spiegano Delogu e Sirna camminando tra viadotti incompiuti e collinette arse dal sole, ruderi occupati e alti palazzoni dalle facciate austere. Il campo come un allestimento provvisorio per verificare i nostri tabù e quelli dei residenti («ma che siete, zingari?»), «per creare nuove storie e uno spazio ambiguo, oltre la divisione tra pubblico e privato». Perché si tratta «di contestare e superare la concezione mono-funzionale dello spazio pubblico», sintetizza Matteo.

PASSAGGI
Richard Sennett si troverebbe a suo agio tra questi performer, attori e attrici, ricercatori, danzatori e danzatrici, artiste visive, fotografi, architetti e architette che esplorano se stessi e il paesaggio per giorni, prima di condurre una platea più ampia sui percorsi tracciati, nel corso delle «passeggiate pubbliche». In Costruire e abitare (Feltrinelli 2018) il sociologo di Chicago critica le città edificate come sistemi chiusi, sigillati, congelati, sovradeterminati negli usi e nelle funzioni, e propone città incomplete, incoerenti, dinamiche, ambigue, che ci permettano di esercitare la competenza sociale dello stare insieme. Come? Si parte da ciò che già c’è e gli si attribuisce un nuovo significato. Camminando, cercando e creando passaggi, sostituendo membrane porose ai confini chiusi, spazi di permeabilità ai recinti. Lawrence, svizzera poco più che trentenne, studi tra storia dell’arte, cybermedia, design e teatro, partecipa «per sperimentare l’idea di comunità, di appartenenza nomade, per capire i miei limiti ed esplorare quelli materiali della città». Egon, giovane drammaturgo e attore belga dai modi dinoccolati e i baffetti castani, è interessato a Roma e agli aspetti percettivi del camminare: «perché la percezione ha almeno una duplice direzione. Si riceve e si dà».
Lo scambio, il fare comunità, il ritrarsi dalle logiche strumentali e produttive in favore di quelle conviviali e partecipate, è centrale. Futura, fotografa di posa, parla di cura, accoglienza, di «attenzione agli altri, abbandono», di confini violati e ridefiniti. Di spazi ri-semantizzati con significati diversi da quelli ordinari, imposti per statuto o acquisiti per assuefazione.
Le esplorazioni urbane fanno riattivare sensi intorpiditi, anestetizzati dalla consuetudine. «Partendo da un cerchio ristretto, camminiamo all’indietro. Sondiamo il terreno con i piedi. Passiamo dallo sguardo in avanti, predatorio, focalizzato, a uno sguardo non focalizzato. Da predatori, diventiamo prede», suggerisce Delogu presentando una delle «pratiche di restituzione delle nostre esplorazioni». Siamo su un pratone tra via del Fosso della Magliana e via Portuense, nel quadrante sud-ovest della città, ai margini di un bosco. Visto da qui, il Nuovo Corviale sembra una palazzina come tante, non quel parallelepipedo di acciaio, pannelli di cemento armato e pareti vetrate lungo 1 chilometro e diventato per tutti «il serpentone». Disegnato dall’architetto Mario Fiorentino ammiccando all’Unité d’habitation di Le Corbusier, costruito a partire dalla metà degli anni Settanta, è sempre stato il «mostro architettonico» per eccellenza di Roma. Da condannare per il degrado o da salvare con una riqualificazione calata dall’alto. Non è così per chi ci abita. Non è così per questi esploratori urbani.
L’appuntamento è davanti al Mitreo, dal lato della biblioteca comunale. «Faremo due cerchi, uno più esterno e uno più interno». Quello esterno conduce sulla facciata del Serpentone che guarda verso la Pisana e Malagrotta, sul lato degli orti recintati da reti da letto arrugginite e protetti da cani fiaccati dal caldo. Il gruppo costeggia il lato lungo del Serpentone, sul dorso di una collinetta. Dalle casse montate sugli zaini si diffonde la musica. Poi si scende, scavallando via del Ponte pisano ed entrando nella Riserva naturale Tenuta dei Massimi. Un po’ rito e un po’ narrazione, un po’ pellegrinaggio e un po’ transumanza, il percorso è di per sé un’azione estetica, un atto politico, un modo per qualificare diversamente un luogo, per percepire diversamente il rapporto tra corpo e paesaggio.

MATRICI CULTURALI
Il corpo non più e non solo come protesi fisiologica di un soggetto sovrano, strumento dell’uomo vitruviano e simbolo dell’antropocene, ma come ponte, tramite verso il paesaggio, che a sua volta non è più un mero fondale delle nostre azioni, qualcosa che abbiamo di fronte o intorno a noi, ma «un campo di forze visibili e invisibili, di cui l’essere umano è solo una parte», nota Delogu. Dietro «c’è una triplice matrice culturale, eco-anarco-queer. Tre orientamenti accomunati dall’idea di rimettere al centro il corpo, una necessità che per noi viene dalla danza e che allo stesso tempo ci ha permesso di ritrovarci a lavorare con architetti e urbanisti», spiega Valerio Sirna. Primo fra tutti l’architetto Francesco Careri – fondatore di Stalker/Osservatorio Nomade e autore di Walkscapes. Camminare come pratica estetica (Einaudi 2006) – che dalla metà degli anni 90 con le «transurbanze» ha unito attivismo e ricerca, pratiche artistiche e osservazione dello spazio urbano. Qui a Corviale Careri conosce tutti, o quasi. Tutti lo conoscono, o quasi. Tiziana, residente di vecchia data, lo abbraccia con trasporto. È felice perché «tra poco mi danno casa rifatta, al quarto piano». Ma poi lo avverte: «occhio quanno annate a Tor Bella Monaca. Mica è tranquillo come qui da noi».