Anche i precari dell’università, titolari di una borsa o di un progetto, sono lavoratori. La Commissione lavoro della Camera ha approvato un emendamento al DDL sul lavoro autonomo non imprenditoriale che rende strutturale l’indennità di disoccupazione per collaboratori (Dis-Coll), e l’ha estesa agli assegnisti di ricerca e ai dottorandi. È una vittoria dei precari, dell’associazione dei dottorandi italiani (Adi) e della Flc-Cgil che si sono battuti contro uno dei principali pregiudizi nel lavoro della conoscenza in Italia. Quello per cui chi fa ricerca non fa un lavoro e quando termina la borsa di studio non è un disoccupato. Dopo presidi, manifestazioni e petizioni – l’ultima ha raccolto oltre 3 mila firme in 24 ore – è stato chiarito almeno il problema: non è giusto che il ricercatore disoccupato si paghi di tasca propria la disoccupazione.

Il provvedimento rientra in un emendamento al ddl sul lavoro autonomo che mira a rendere strutturale la Dis-Coll e a estenderla. La modifica proposta stabilisce che dal primo luglio 2017 la Dis-coll sarà riconosciuta tanto ai soggetti previsti dal Jobs Act (co.co.co e co.co.pro) e ai precari universitari con borsa di studio. Coloro che sono costretti a pagarsi il dottorato di tasca propria, un altro scandalo dell’università italiana, non potranno beneficiare del sussidio di disoccupazione. Per lavorare loro pagano. E, ovviamente, non riceveranno la Dis-Coll. L’università si conferma una frontiera dell’auto-sfruttamento.Adi e Flc Cgil chiedono la cancellazione di questa contraddizione.

La copertura della disoccupazione non sarà gratuita. È prevista un’aliquota aggiuntiva dello 0,51%, un terzo della quale a carico dei precari (0,17%), il resto a carico degli atenei. Un aumento alla già pesante aliquota versata da entrambi i soggetti (2/3 è a carico delle università) alla gestione separata dell’Inps: il 32,72% a fronte di prestazioni sociali inadeguate e inferiori rispetto a quelle che ricevono i dipendenti. Adi e Flc Cgil chiedono il ritiro della norma e di attingere i fondi dai contributi già versati. “Dopo l’intervento del Governo nel Milleproroghe, volto a garantire la continuità dell’erogazione della  Dis.Coll fino a giugno di quest’anno – ha commentato il ministro del lavoro Giuliano Poletti – il voto di oggi rappresenta una conferma della volontà di rendere questo strumento strutturale, in coerenza con la disciplina complessiva del lavoro autonomo non imprenditoriale contenuta nella legge delega».

In realtà tutta questa coerenza non è data vederla. Il Ddl sul lavoro autonomo, originariamente concepito addirittura come uno “statuto del lavoro autonomo”, è diventato un patchwork legislativo per risolvere le grane create dal Jobs Act… sui lavoratori parasubordinati. L’inserimento della norma sulla Dis-Coll in questo provvedimento è a dir poco anomala. E non solo dal punto di vista della logica giuridica.

Assistiamo, infatti, al paradosso dell’estensione strutturale di un ammortizzatore sociale per una tipologia di lavoratori originariamente non prevista nel provvedimento e che, da luglio 2017, escluderà gli autonomi, ovvero i destinatari del Ddl. La contraddizione è clamorosa e, di base, è stata creata dall’entità bicefala della gestione separata dell’Inps: una cassa composta per due terzi da lavoratori parasubordinati e per un terzo da partite Iva. Con l’integrazione della Dis-Coll ai primi sarà riconosciuto un diritto – perché appartengono al ceppo del lavoro dipendente – che ai secondi continuerà ad essere sconosciuto. Pur versando un’aliquota previdenziale inferiore, agli autonomi non viene concesso il riconoscimento di uno stato di disoccupazione. Loro restano un’ impresa, dunque non hanno bisogno di un sussidio di disoccupazione. E questo nonostante il primo articolo del Ddl dove si riconosce la condizione di lavoratori alle partite Iva.

Per creare un simile sussidio per i lavoratori autonomi che versano di tasca propria i contributi alla gestione separata dell’Inps, la stessa dei parasubordinati, occorrerebbe un sistema diverso: non assicurativo, come la Dis-Coll, ma universalistico. Occorre cioè l’intervento della fiscalità generale e una normativa – ancora da creare – che stabilisca i criteri attraverso i quali riconoscere la disoccupazione: sul reddito, le commesse, il fatturato? Il Ddl, ad oggi, non se ne occupa. Per una misura che, per la prima volta, si occupa dei lavoratori autonomi e dei loro diritti, è un problema.

Il problema non è solo tecnico, ma politico, ed è stato evidenziato dall’Adi e dalla Flc-Cgil: “Nel Ddl non si contemplano tutte quelle figure, numerose tra i lavoratori della conoscenza, che lavorano con partita IVA e sono prive di qualsiasi protezione a fronte di discontinuità di reddito”.