Alla fine si sono arresi. I due dirottatori del volo della Afriqiyah Airways, partito dall’aeroporto libico di Sabha ieri mattina, hanno abbandonato la bomba a mano e la pistola (probabilmente finte) di cui erano armati all’aeroporto de La Valletta, a Malta, dove l’Airbus era stato fatto atterrare. A bordo 118 persone, lasciate andare dopo qualche ora di trattative.

Di dettagli ancora non se ne hanno, soprattutto in merito al movente del dirottamento. Pare che i due uomini, arrestati dalle autorità maltesi, siano sostenitori del leader libico deposto e ucciso nel 2011, il colonnello Gheddafi. Ma non è chiaro se si sia trattato di un gesto politico individuale (spiegato dalla presunta richiesta di asilo) o di un’azione organizzata da gruppi che sostengono il clan Gheddafi.

Ma, diceva ieri il premier maltese Muscat, nessuno dei due ha mosso richieste specifiche e le armi che portavano sarebbero finte. Una foto scattata all’aeroporto di Malta mostra uno dei due sventolare una bandiera verde, simbolo della Jamahiriya, la repubblica socialista e araba fondata dal colonnello. Tanto che il ministro degli Esteri del governo di unità nazionale libico, Taher Siala, li ha indicati come membri di un partito pro-Gheddafi e – riportava una tv libica – avrebbero detto di aver preso l’iniziativa «per promuovere la nuova fazione».

Secondo alcuni media maltesi, si tratterebbe di un piccolo partito, Al Fatah Al Gadida, aggiungendo poi che i dirottatori avrebbero chiesto la liberazione del figlio del colonnello, Saif al-Islam, che però prigioniero non è lo più, o almeno lo è solo ufficialmente. Il secondogenito dell’ex dittatore, suo delfino prima del crollo del paese e dalla comunità internazionale considerato il volto del riformismo libico, era stato catturato nel 2011 mentre fuggiva nel vicino Niger.

Fatto prigioniero dalle brigate Zintan, provenienti dall’omonima zona della Libia occidentale, era stato condannato a morte in contumacia un anno e mezzo fa dall’allora governo islamista di Tripoli. Ma da tempo il suo è un arresto “dorato”, domiciliari che però somigliano di più ad una protezione che ad una detenzione.

Secondo fonti locali, dietro la sua mezza liberazione c’è il generale Haftar, il capo militare del governo ribelle di Tobruk che mai ha riconosciuto come legittimo l’esecutivo di unità nazionale guidato dal premier al-Sarraj e voluto dalle Nazioni Unite. Haftar, dicono, avrebbe aperto al simbolo dell’ex regime per creare un fronte contro il governo di unità, incapace di porsi alla guida dell’intero paese. Un paese che rimane spaccato in decine di autorità rivali, milizie armate e tribù le cui fedeltà variano di di città in città.

Lo stesso dirottamento di ieri, atto organizzato o individuale che sia, gesto di due disperati come sembra o meno, è lo specchio del caos libico. L’aeroporto di Sabha (che serve la capitale dopo che quello internazionale di Tripoli è stato dato alle fiamme nel 2014 durante scontri tra milizie) non è sotto il totale controllo del governo di unità, ma è “gestito” da vari gruppi armati con fedeltà diverse.

Eppure è passato esattamente un anno dalla nascita del nuovo esecutivo. Da allora poco è cambiato: Tobruk non intende piegarsi ad al-Sarraj e, Haftar in testa, ha in mano la Cirenaica e i porti petroliferi lungo la costa, mentre gruppi islamisti mobilitano cellule sparse in tutto il territorio, dal confine sud nel deserto – dove Isis e al Qaeda gestiscono traffici di armi e uomini – fino alla costa di Derna e Sirte.

Proprio tre giorni fa gli Stati Uniti hanno ufficialmente chiuso l’intervento militare lanciato il primo agosto per cacciare da Sirte lo Stato Islamico che la occupava da mesi: nonostante 500 raid aerei, solo due settimane fa è stata annunciata la definitiva liberazione della città. Ma su che fine abbiano fatto i miliziani che stavano dentro non si hanno informazioni certe.

La Libia è il volto delle contraddizioni degli interessi occidentali nel mondo arabo, trascinata in un drammatico vacuum istituzionale dall’intervento Nato a cui è seguito un flusso senza precedenti di milizie islamiste e l’esplosione di settarismi politici e tribali, sempre tenuti a bada da Gheddafi e la sua rete di alleanze.