La diciottesima edizione del «Docudays UA -International Human Rights Documentary Film Festival» si è svolta online e dal vivo a Kiev che mai come ora ci appare distante ed esotica. Il programma ha attraversato la produzione locale e internazionale non necessariamente inedita. Quest’anno lo sguardo di alcuni autori è rivolto alle battaglie personali e non dei loro personaggi. Damien Samedi, giardiniere saltuario nel villaggio belga di Sclayn, viene ritratto dalla sorella, la regista Paloma Sermon Daï, nella lotta contro l’eroina mentre cerca un centro di riabilitazione. Petit Samedi, premio della Giuria degli Studenti e già proiettato al Forum della Berlinale 2020, (non) mostra con estremo pudore, i momenti in cui Damien non regge e cede alla sostanza; i demoni sono invisibili eppure presenti, in dissonanza con l’ameno paesaggio vallone e nel rapporto simbiotico con la figura della madre che scandisce la narrazione. L’autrice si interroga su cosa significa essere figli e madri e quali sono i confini delle dipendenze che nascono e investono società e affetti più prossimi.

Il caotico senso dell’amore in famiglia è esplorato anche dalla regista canadese André- Line Beauparlant con Petit Tom nel pedinamento di Tom, 6 anni, bambino iperattivo a tratti violento, figlio di una madre tossicodipendente e bipolare, fratello di una escort e nipote di una nonna che tenta di occuparsi di tutti. Il giudizio è sospeso, la Beauparlant entra a piccoli passi nel complicato ménage quotidiano e quasi evapora lasciando la parola al destino di Tom che riprende con una piccola camera la realtà di cui cerca una logica dove l’amore, seppur maldestro, è ancora possibile.

Nel benessere del Nord Europa ai protagonisti di Solitaire Dance sarebbe, tuttavia, cosa gradita un contatto umano sebbene imbranato. Il documentarista finlandese Antti Lempiäinen coglie la solitudine raccontando le giornate di una madre single, di un anziano divorziato e di una ragazza senza amici che ballano sempre da soli. Potremmo essere in una cittadina della Finlandia dal welfare impeccabile o in un altro condominio del mondo: cambiando l’ordine degli addendi il disastro psicosociale contemporaneo non cambia.

Taming The Garden (premiato nella sezione Docu World e presentato al Sundance) della georgiana Salomé Jashi vive di una battaglia in altri tempi definita contro il «Potere» che forse non è l’unico imputato. La regista, nota per Bakhmaro (2011) e The Dazzling Light Of Sunset (2016), torna nelle maglie del suo Paese con un poema visivo dolce e crudele sulla natura succube del delirio d’onnipotenza. Un uomo ricco e potente (ed è già una fiaba che finisce male) senza dichiarato nome e cognome (tana: Bidzina Ivanishvili) colleziona alberi secolari per il suo parco privato sradicandoli dalle comunità sulla costa in cambio di spiccioli e presunti lavori stradali. Una elegia funebre in cui la sopravvivenza è l’unica redenzione. Un documentario politico in contatto con la natura, ennesimo felice esempio dell’ultimo cinema georgiano dopo gli scivoloni estetizzanti di Beginning (Dea Kulumbegashvili, 2020).

C’è chi la guerra la conosce bene e non solo per metafore: in Tales Of A Toy Horses di Ulyana Osovska e Denis Strashny, Anatoli, un ex attivista antisovietico ora monaco e artista, parte da Tallinn diretto verso l’Ucraina dell’est come volontario portando aiuti umanitari. Immagini che non risparmiano la brutalità del conflitto nel Donbass alternati da interludi animati basati sui racconti popolari che Anatoli ascolta dalle persone che incontra. A metà tra due guerre è il ventenne Andriy Suleiman in This Rain Will Never Stop di Alina Gorlova premiata, a ragione, all’IDFA di Amsterdam e in questa edizione del Docudays per Current Time Tv. Cresciuto in Siria da padre curdo e madre ucraina Andriy si è rifugiato con parte della famiglia nella regione del Luhansk e quando anche qui scoppia il conflitto decide di fare il volontario per la Croce Rossa. L’alternanza tra guerra e pace è filosofica e concreta, il dissidio interiore di chi auspica una vita tranquilla e il dovere di aiutare gli altri si riverbera in un magnifico bianco e nero (direttore della fotografia Viacheslav Tsvietkov) a cavallo tra Asia e l’Europa. Un viaggio «di smarrimento» che attraversa l’Ucraina, la Siria (dove il protagonista tornerà per seppellire il padre), l’Iraq e la Germania in un vortice di mutilati di guerra, campi profughi, matrimoni, funerali e persino parate dell’amore libero.

La guerra non è mai finita nemmeno per Ruby, attivista colombiana, e sua figlia Yira esule a Cuba, protagoniste di A Colombian Family di Tanja Wol Sørensen (premio Rights Now). Sullo sfondo dei flebili accordi di pace tra FARC e governo colombiano madre e figlia cercano di ritrovarsi sulle ceneri di un passato difficile e ingombrante per entrambe in cui hanno perso marito e padre. Yira desidera solo una vita migliore per sua figlia, lontano dalla Colombia, assieme a Ruby che è ancora una fervente attivista per i diritti umani e non intende lasciare sola la sua gente. Non c’è guerra interiore che non possa essere superata ma i fantasmi di quella vera lasciano cicatrici profonde. Un dramma familiare, raccontato con delicatezza, in un territorio disgraziato. Tra gli altri premiati va menzionato Ivan’s Land di Andrii Lysetskyi miglior documentario ucraino. Ivan Prykhodko è uno degli ultimi artisti popolari in Ucraina, vive in campagna circondato da natura e animali, un mondo quasi incontaminato che potrebbe lasciare quando gli propongono una personale nel principale centro espositivo di Kiev.

Chi non vuole partire, chi è in fuga e chi non può fare a meno di vivere dove altri scappano come Michel in As Far As Possible di Ganna Iaroshevych (premio Andriy Matrosov). Michel è un tedesco che si prende cura di bufali in un villaggio ucraino. Una scelta radicale e appassionata messa in discussione dall’incontro in un breve ritorno in patria con Vera. Nella guerra tra l’amore e un sogno interrotto chi può vincere?