Paralleli post-coloniali. Nelle stesse ore in cui a Londra sfilano 1 milione e mezzo di persone per il Gay Pride più partecipato di sempre, a quasi 10 mila km di distanza, gli attivisti lgbtqi del Botswana, che ha in tutto lo stesso numero di abitanti, devono ancora digerire un ricordino della dominazione britannica rimasto impigliato nell’ordinamento giuridico del paese: la norma che punisce con il carcere fino a 7 anni il «reato» di omosessualità.

IL PROBLEMA PERSISTE in diversi paesi africani, quasi tutti ex colonie di Londra. E sul senso di quelle norme copia-e-incolla esiste una vasta letteratura. Colpisce che ancora oggi, quando un parlamento o un giudice – è il caso del Botswana – provano a immaginarne un superamento , le reazioni contrarie politiche e dell’opinione pubblica fanno capire come certe norme esprimano un lascito storico dolente e allo stesso tempo incontrino un ideale di morale condiviso, che fa sentire tutto il suo peso quando entra in gioco la componente religiosa, sia essa islamica, o evangelica o altrimenti integralista.

In alcuni casi – negli stati settentrionali della Nigeria ad esempio – la sharia prevede anche la pena di morte per le unioni tra persone dello stesso sesso. Altrove, come nell’Uganda dell’omofobo Yoweri Museveni, si ritrova il carcere fino a 7 anni come in Botswana. E come in Botswana, la giustizia del Kenya ha iniziato ad accogliere le denunce delle associazioni e a sentenziare sul carattere profondamente discriminatorio di certe leggi.

IERI L’ATTORNEY GENERAL del Botswana Abraham Keetshabe, dopo la sentenza con cui a giugno l’Alta corte di Gaborone ha dichiarato incostituzionale e fuori dal tempo il «reato» di cui sopra, ha annunciato il ricorso del governo. «Ho letto attentamente le 142 pagine con le motivazioni e penso che i giudici siano in errore». Il ministro non ha fornito altri dettagli, neanche in merito alle basi su cui intende procedere.

 

 

APPARENTEMENTE impermeabile ai limitrofi tumulti razziali (confina con Sudafrica, Namibia e Zimbabwe), con una banda bianca e una nera nella bandiera nazionale a indicare l’acquisita uguaglianza razziale – vera o presunta che sia -, l’ex Bechuanaland che fu protettorato britannico fino al 1966 vorrebbe aggiungere oggi molti altri colori a questo bianco e nero ostentato.