«L’arresto è stato assurdo, non ce l’aspettavamo. Forse perché veniamo tutti e sei dalla capitale, e non ci rendevamo conto di quanto può essere bigotta Kairouan. Non facevamo nulla di illegale, ci trovavamo a cenare insieme, a scherzare, al massimo a vedere qualche film. Arrivano i poliziotti chiamati dal guardiano a vedere che facevamo, perquisiscono tutto, non trovano niente, solo un paio di video nel computer e ci portano via».

Quello che il 22enne J. , il portavoce dei sei ragazzi arrestati nella Casa dello Studente di Kairouan racconta, resta il caso più eclatante degli episodi repressivi recentemente venuti alla luce, nel duello in corso in Tunisia sulla questione omosessuale.

A fare scalpore sono stati certo il loro arresto, certo la condanna a ben tre anni di carcere solo per (presunti) atti omosessuali, certo la pena aggiuntiva e grottesca del divieto d’accesso a Kairouan. Ma ancor di più il test anale imposto con la collaborazione di un medico legale di Kairouan (alcune Ong lo considerano un atto di tortura, oltre che palesemente antiscientifico). Quando si è tirato il respiro di sollievo per la scarcerazione dei sei in vista del processo d’appello, è emerso il peggio: maltrattamenti, atti di bullismo omofobico, giochi crudeli probabilmente descrivibili come tortura.

«I secondini si radunavano in una quindicina, ci facevano portare da loro, e si divertivano a malmenarci e a prenderci a pedate, o anche a metterci la testa sott’acqua», racconta J. «E gli altri detenuti, incitati da tale esempio, qualche volta hanno fatto altrettanto, mettendosi in cerchio tutt’intorno a noi e delegando il loro capo a tormentarci con un bastone».

Voglia di sfogarsi

J. ancora ha voglia di sfogarsi. «Non ci lasciavano mai del tutto in pace, avevamo paura anche di addormentarci, ci hanno sistematicamente fregato i vestiti e il cibo portato dalle nostre famiglie. Persino il poliziotto che mi accompagnava in infermeria mi malmenava e mi toccava». È preoccupato perché le famiglie non li sostengono, perché ha perso il posto all’Università e perché arrivano dispetti misteriosi : account Facebook disattivato, minacce nel suo cellulare il cui numero hanno in pochi.

Casi di maltrattamento omofobico in carcere simili a questo per fortuna non sono generalizzati. E c’è anche da dire che la novità introdotta dalla irruzione sulla scena pubblica della associazione Shams (Sole) per la depenalizzazione dell’omosessualità è che adesso vengono alla luce molte cose che prima restavano nascoste. Come probabilmente è il caso dell’episodio denunciato lunedì 18 gennaio dall’associazione.

Abusi e prepotenza

Un gay fermato e controllato da una macchina della polizia, poi il poliziotto da solo se lo porta via e lo violenta in un luogo appartato dell’hinterland. Omofobia o piuttosto prepotenza (omo)sessuale? La Tunisia è stata per anni una meta di turismo sessuale, un luogo del classico «si fa ma non si dice». Otto anni fa venne girato ad Hammamet un film in cui Claudia Cardinale è la mamma che scopre e alla fine accetta l’orientamento omosessuale del figlio. Ora sembra invece inevitabile che la mite meticcia e sfumata Tunisia lasci il posto a un campo di battaglia tra diritti civili e oscurantismo che ricorda quasi il MidWest americano.

Marwen arrestato e condannato a un anno, Marwen scarcerato e pena in appello ridotta a due mesi. Shams riconosciuta come associazione ufficiale, Shams sospesa per 30 giorni (!) ma il Tribunale esamina i ricorsi. Per i sei di Kairouan condannati a tre anni in primo grado, dal tribunale di Kairouan, l’avvocata Fadoua Braham punta alla assoluzione in appello, nel tribunale di Sousse.

Per due giovani attivisti di Shams che lasciano il paese, spaventati da minacce di anonimi integralisti omofobi, ce ne sono altri che escono allo scoperto e si fanno intervistare a viso aperto.
Addii e uscite allo scoperto

Nel solito corteo annuale per l’anniversario della Rivoluzione è apparso per la prima volta un cordone di attivisti lgbt (abbastanza fischiato, ma tutto sommato tollerato).

Almeno due telegiornali francesi, per esempio, hanno dedicato ampio spazio alla questione lgbt nei servizi sull’anniversario della Rivoluzione. A molti sembra «prematuro», la società civile democratica preferirebbe rimandare a tempi più maturi lo scontro sulla questione omosessuale, ma è impossibile.

Saranno anche pochi, figli dei ceti medi privilegiati della costa, ma ne stanno venendo fuori uno dopo l’altro, di ragazzi che non vogliono più nascondersi, che sono disposti all’attivismo nella nuova associazione Shams o in altri gruppi, che rivendicano il diritto di non rischiare l’arresto e di essere protetti dalle minacce degli integralisti estremi.
Hedi Saly, il 26 enne vicepresidente di Shams, ha chiesto asilo politico in Francia, perché la polizia non è in grado di proteggerlo dalle minacce di vari anonimi integralisti estremisti, e qualcuno gli ha anche fatto ritrovare una sua maglietta (misteriosamente sparita) intrisa di sangue nel giardino.

Ma Saly non ha neanche bisogno di entrare nel complicato sforzo di dimostrare che la polizia non lo vuole o può proteggere. Ai fini della protezione umanitaria gli basta dimostrare di essere gay in un paese dove un giorno puoi essere invitato a un dibattito televisivo ma il giorno dopo un poliziotto zelante – aizzato dalla denuncia di qualcuno che ce l’ha con te – ti può arrestare per violazione dell’articolo 230.

Una situazione ambigua che la Tunisia non si può permettere di fronte all’Europa, dopo aver preso il Nobel per la Pace per la società civile e la transizione pacifica. Ma che non può neanche risolvere facilmente, perché la depenalizzazione secca chiara e semplice desterebbe enorme attenzione e prevedibili proteste in tutto il mondo arabo. Qualcuno ha invocato la coerenza con la Costituzione. Ma non è ancora entrata in funzione una Corte Costituzionale che possa esaminare la costituzionalità del vecchio articolo 230 ( introdotto dai colonizzatori, non dagli islamisti.)

La partita è aperta.