La Corte costituzionale ci informa con un comunicato del 9 giugno che le questioni sollevate sulla legittimità costituzionale della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa richiedono un complesso bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, che spetta in primo luogo al legislatore.

Essendo pendenti in Parlamento vari progetti di legge in materia, la Corte, nel rispetto della leale collaborazione istituzionale, ha rinviato la trattazione all’udienza pubblica del 22 giugno 2021. Restano sospesi i procedimenti penali nell’ambito dei quali sono state sollevate le questioni di legittimità.

La Corte ci sta dicendo che il bilanciamento in atto, come stabilito dalla norma, non è accettabile.

Se non fosse così, avrebbe dovuto dichiarare l’infondatezza della questione. Invece, ci dice che è fondata. Preannuncia quindi una sentenza di illegittimità, cui però non intende giungere immediatamente, perché il principio di leale collaborazione impone il rinvio. È l’applicazione del modello Cappato. La Corte concesse tempo al legislatore perché intervenisse. Il Parlamento rimase inerte, e la Corte si pronunciò poi con la sentenza 242/2019.

Bisogna essere molto cauti sull’applicazione di un principio di leale collaborazione tra Corte e Parlamento. Forse, in materia di diritti e di libertà non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Perché da un lato c’è chi li può attaccare, ed è il legislatore; dall’altro chi ha il dovere di difenderli, ed è la Corte. Sono due soggetti fisiologicamente antagonisti. Qui siamo pericolosamente vicini a scenari in cui la Corte viene meno al proprio specifico ruolo.

La Corte tiene a sottolineare che nel tempo concesso al Parlamento i processi da cui sono partite le ordinanze di rimessione rimangono sospesi. Ovvio. Ma la cosa riguarda solo quei processi. La normativa di cui si dubita rimane vigente e applicabile, e produce i suoi effetti.

Cosa può accadere? Supponiamo che per una identica fattispecie siano coinvolte altre parti in altro giudizio davanti ad altro giudice. I difensori, essendo avvertiti della posizione della Corte, presentano le stesse eccezioni che la Corte ha oggi considerato.

Ma il secondo giudice non è tenuto a comportarsi come il primo, e a sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale. Potrebbe bene ritenere l’eccezione infondata, respingerla, procedere con la decisione, e magari con la condanna. Una disparità di trattamento e un danno probabilmente recuperabili in successive fasi di giudizio, ma indiscutibili.

E che dire poi del chilling effect, dell’effetto deterrente che la perdurante vigenza della normativa comunque produce, nell’anno di tempo concesso al Parlamento per intervenire, alla libertà del giornalista e al suo diritto di informare, nonché al diritto dei cittadini di essere informati? Quanti articoli, commenti, analisi, inchieste possono risultare edulcorati, smussati, o magari ricondotti a chiacchiere da salotto? Sappiamo per certo che per quell’anno un danno ci sarà. E non dobbiamo dimenticare che alla intimidazione del giornalista sono finalizzate anche le richieste di risarcimenti stellari.

In materia di diritti e libertà il principio di leale collaborazione produce danni. Ci sono alternative? Sì. Nella vasta panoplia della tipologia di sentenze della Corte certamente si trova il modo di colpire la illegittimità misurando con prudenza il danno (ma quale?) inferto al bilanciamento operato dal legislatore. Meglio allora evitare i minuetti istituzionali.

Affermiamo piuttosto il principio che ognuno faccia il suo mestiere. Il Parlamento, che legifera secondo la lettura di maggioranza degli interessi del paese. Il Capo dello Stato, che verifica eventuali “manifeste incostituzionalità” nel promulgare o emanare. E la Corte che assicura la conformità alla Costituzione. In specie, vogliamo essere garantiti da un ringhioso guardiano di diritti e di libertà. E vogliamo che sia particolarmente sensibile al punto che la libertà di manifestazione del pensiero ed in specie quella di stampa sono coessenziali alla democrazia.

La Corte dovrebbe sapere che nel World Press Freedom Index 2020 siamo solo quarantunesimi, con i paesi del Nord Europa ai primi posti. Ci piace dire che siamo la patria del diritto. Forse. Ma non siamo la patria dei diritti e delle libertà.