E conta sia. Renzi può vincerla, ma anche così spaccherà il partito. Aprendo il congresso un po’ in anticipo rispetto ai piani, visto che è ancora fresco di sconfitta elettorale e non ha ancora un candidato pronto per la segreteria. La sortita in tv da Fazio accende lo scontro nel Partito democratico. Diversi esponenti della ex maggioranza renziana vengono allo scoperto per chiedere «un chiarimento», cioè un voto nella direzione di giovedì.

RENZI CHIUDE OGNI SPAZIO di dialogo con Di Maio e la prima reazione di Martina è evidentemente irata. «È impossibile guidare un partito in queste condizioni», dice il “reggente” che ha inseguito invano la “collegialità”. In tv l’ex segretario chiude prima del tempo la direzione. Possibile sedersi con Di Maio, impossibile tirarne fuori qualcosa di concreto. Da qui lo sfogo di Martina, che invece per quel dialogo si è speso, anche in ossequio alle spinte di Franceschini e del Quirinale. «Impossibile» sembrava una dichiarazione di resa, un preludio alle dimissioni di Martina. L’intenzione può essere stata quella per qualche ora, poi raggiunto dall’Ansa, Martina assicura: «Niente dimissioni, il tema è un altro». Quello cioè di provare a cambiare «queste condizioni». Mettere in minoranza Renzi.

Farlo in direzione però, resta un’impresa assai difficile. L’ex segretario dopo il tracollo elettorale e le dimissioni – mai accompagnate da un’analisi della sconfitta – non controlla più i quasi due terzi dell’organismo che guida il partito: su 209 componenti sono adesso circa un centinaio i fedelissimi, tutti convinti dell’impossibilità di fare un governo con i 5 Stelle. Ma non tutti convinti della linea oltranzista, ed ecco perché le varie minoranze, che sulla carta possono contare su numeri assai più ridotti, si fanno avanti. E così Martina spiega che il «tema» adesso è «una discussione franca e senza equivoci» per arrivare a quella «vera ripartenza su basi nuove» che il Pd non ha mai avuto. Prigioniero di quello che per il sindaco di Bologna Merola è rimasto «un padroncino che fa e disfa senza mai discutere».

TORNANDO IN TV per dettare la linea, invece che negli organismi di partito per provare a spiegare come mai la sua linea ha fallito, Renzi stana i suoi silenziosi avversari interni. Se lo abbia fatto per calcolo o per istinto è distinzione quasi impossibile. Di certo ha costretto a prendere parola il sempre prudente Franceschini. «È arrivato il tempo di fare chiarezza», dice il ministro che è un po’ l’amministratore politico di quell’area che nella crisi prova a indovinare le indicazioni dei due presidenti, Gentiloni e Mattarella. Chiarezza significa voto, la «conta». Le minoranze partono in svantaggio, mettendo insieme chi adesso si riconosce in Martina con i franceschiniani, gli orlandiani e i sostenitori di Emiliano non si arriva a un’ottantina di componenti della direzione.

LE MINORANZE SONO almeno compatte. E se Franceschini dice che «Renzi si è trasformato in un Signornò, disertando ogni discussione collegiale e smontando quello che il suo partito stava cercando di costruire. Un vero leader rispetta una comunità anche quando non la guida più», Fassino, che ora si muove un po’ da nume tutelare di Martina, invoca anche lui «un chiarimento che consenta a Martina di guidare il partito con autorevolezza in una fase così cruciale per il paese. Nessun partito ha vita lunga con due centri di direzione». La portata dello scontro la definisce anche l’uscita di un altro navigatore accortissimo, il governatore Zingaretti: «Se si va in tv, a poche ore dalla direzione, a fare uno show si genera solo caos e confusione. Questo dopo una lunga serie di sconfitte è molto grave».

La risposta di Renzi è un classico dell’imbroglio retorico, il protagonista dello show si dice censurato: «Davvero tutti possono andare in tv tranne uno? Non scherziamo, amici».

Ma il ritorno dell’ex segretario non sarebbe stato completo senza un piano per una nuova riforma costituzionale. Persino più radicale di quella tentata per due anni e bocciata dal referendum. Renzi vorrebbe cambiare la forma dello stato, da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, (ri)passare al monocameralismo e fare una legge elettorale con il doppio turno – anche se dal poco che si è capito ascoltandolo in tv il modello assomiglia più a quello dell’Italicum (giudicato incostituzionale dalla Consulta) che al doppio turno di collegio francese.

TUTTO QUESTO IMMAGINA di affidarlo a un parlamento, dove Lega e 5 Stelle insieme hanno i numeri per fare da soli e il Pd deve, secondo lui, congelarsi in minoranza. Una volta aperto il cantiere istituzionale, Salvini e Di Maio disporrebbero di una maggioranza quasi identica a quella con la quale il Pd renziano ha approvato la sua “grande riforma”. Almeno su questo, però, Franceschini non può avere da ridire. Era stato proprio lui, pochi giorni dopo il risultato del voto, a immaginare che la diciottesima legislatura potesse essere la prima legislatura costituente. Invece potrebbe essere la prima a durare meno di un anno.