Renzi conferma se stesso, rivendica la politica dei mille giorni del suo governo e anzi la rilancia con la convocazione dell’assemblea nazionale. Ora si corre verso un congresso ravvicinato contro la volontà delle minoranze di allungare i tempi della discussione interna per garantire la fine naturale della legislatura. L’aut-aut di Bersani («dobbiamo uscire da qui dicendo quando si vota») è stato rispedito al mittente spingendo così gli oppositori interni verso l’ipotesi di una scissione che adesso, però, non sarà facile motivare con un dissenso sulla data del congresso.

Del resto che il segretario del Pd fosse intenzionato a rilanciare la sfida della leadership era scontato e la sua relazione alla direzione riunita ieri lo aveva chiarito fin dalle prime battute quando Renzi ha nominato la sconfitta referendaria per lamentare la fine della belle epoque del suo governo:

«Con la sconfitta del referendum è finita la narrazione del futuro e l’Italia si è rannicchiata nella quotidianità». Questa frase, che dice la verità, nelle intenzioni di Renzi ha naturalmente un valore tutto negativo, perché l’ex presidente del consiglio non prende neppure in considerazione che il cambio di immagine, di linguaggio, di passo di Gentiloni possa suscitare nell’opinione pubblica quel sentimento di sollievo che, mutatis mutandis, ci fu nel passaggio di consegne tra la bandana di Berlusconi e il loden di Monti.

Eppure la sua assenza dalla scena televisiva, la temporanea scomparsa delle slide, degli ultimatum lanciati quotidianamente dal salvatore della patria rischia di guadagnare apprezzamenti al tran-tran della coppia Gentiloni-Padoan (il ministro dell’economia convitato di pietra della direzione, invitato a suon di tromba e rimasto in religioso silenzio).

Tanto ha ripetuto che bisogna discutere di contenuti e non di elezioni quanto più si è capito che sta contando i giorni che lo separano dal Renzi-bis. E sul governo Gentiloni è caduto tutto il peso dell’irrilevanza e della distanza. Non solo perché le misure di politica economica (l’aumento delle accise per racimolare i miliardi necessari a riequilibrare il deficit) sono da buttare, ma per la critica assai più urticante di rappresentare un messaggio deprimente, un sentimento di rassegnazione di fronte alle armate degli avversari politici.

Renzi ha bacchettato chi ora si butta a sinistra ma ieri votava il fiscal compact, ha irriso chi davanti alle sfide mondiali discute sulla scissione e con calma ha assestato il colpo: «La scissione su che cosa? sul calendario? E’ un ricatto morale». Alla fine il congresso è stato giocato come il drappo rosso da agitare davanti a chi lo vorrebbe mettere da parte come una parentesi, un incubo, cioè davanti a tutti quelli che prima volevano il congresso, poi no, poi si ma il più tardi possibile.

«Noi vi aspettiamo alla sfida politica, ma poi se vinciamo noi non scappate con il pallone» dice rivolgendosi ai capi delle correnti nella sua replica, prima del voto, schiacciante, a suo favore. Anticipando con quel «noi» e «voi» la mimica della scissione di fatto.