Quando si pensa alle tragedie legate alla cattiva gestione del territorio, viene subito in mente il Vajont: la sera del 9 ottobre 1963, una frana cade dal Monte Toc nel bacino idroelettrico artificiale e provoca la tracimazione dell’acqua raccolta nell’invaso distruggendo così una serie di nuclei abitati e causando la morte di 1917 persone.

Sarebbe stato un monito per tutti, ma purtroppo non fu così: il paese di Longarone, uno dei più colpiti dalla tragedia, nel 1963 aveva un’area urbanizzata di 59 ettari, ma con la successiva ricostruzione in pratica la quadruplicò.

Questo esempio è emblematico dell’approccio che abbiamo noi italiani rispetto al territorio: costruiamo molto, costruiamo ovunque e, costruiamo male.
Le aree fluviali fanno le spese di questa cementificazione irrazionale che scarica sulla collettività prezzi altissimi in termini di vite umane, disagi per le popolazioni colpite e costi per la ricostruzione o la messa in sicurezza.

Invertire la rotta fino ad oggi seguita non è facile. E se pure vi fosse una tale volontà sociale e politica (e non è così), i tempi sarebbero lunghi. Ma non esiste alternativa, anche alla luce dei cambiamenti climatici che stanno accelerando determinati fenomeni.

È indispensabile partire dalla corretta applicazione delle Direttive europee su «Acque» e «Alluvioni», mettendo le Autorità di bacino distrettuale al centro della pianificazione e del coordinamento di tutti i soggetti sul territorio. Se città metropolitane e comuni possono rappresentare dei laboratori di adattamento ai cambiamenti climatici attraverso azioni anche innovative, devono essere le Autorità di distretto a svolgere un ruolo centrale nella pianificazione degli interventi. Da rafforzare sul piano istituzionale e organizzativo per garantire autonomia e coordinamento delle conoscenze, queste Autorità dovrebbero, collaborando con le regioni, avviare una diffusa azione di rinaturazione fluviale realizzando interventi integrati tesi a ridurre il rischio idrogeologico, migliorare lo stato ecologico dei corsi d’acqua, assicurare la tutela di ecosistemi e biodiversità. Ciò è possibile solo con un approccio interdisciplinare per individuare, attraverso adeguate competenze, le azioni più giuste per progettare e realizzare interventi di difesa del suolo, ma anche «infrastrutture verdi» con una rete di aree naturali e seminaturali, indispensabile per assicurare che gli ecosistemi fluviali e i loro bacini continuino a fornire fondamentali servizi ecosistemici. E più in generale, la partita si gioca a livello europeo e nazionale.

Il primo fronte è la difesa della Direttiva quadro «Acque» da cui dipendono le politiche di gestione in tutti gli Stati membri. Fino a marzo 2020 resterà aperto il confronto per la modifica di questa direttiva ed è fondamentale che non vi sia una riduzione del grado di tutela, come purtroppo viene richiesto da diverse parti.
A livello italiano dobbiamo rendere operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, identificando con chiarezza gli attori istituzionali per la sua attuazione, fornendo una definizione più cogente delle azioni necessarie e individuando fonti di finanziamento certe. In un Paese reso fragile da decenni di errori, i cambiamenti climatici saranno devastanti per cui è necessario agire subito per mitigare gli effetti di quanto comunque si verificherà. Continuare invece ad ingessare il territorio, consumando suolo e natura o prospettando soluzioni sempre a scapito dell’ambiente, amplificherà (e di molto) i danni che subiremo nei prossimi anni.