Dipesh Chakrabarty sta dando un contributo molto importante alla comprensione del cambiamento climatico, mettendo insieme le conoscenze sulla storia del clima e sulle trasformazioni del modo di produzione capitalistico-industriale con quelle maturate nel campo della Scienza del sistema terrestre. Il contributo dello studioso indiano e docente di storia presso l’Università di Chicago è ancora più rilevante in quanto esso si confronta anche con una lettura delle implicazioni politiche delle profonde trasformazioni in corso.

QUESTE ULTIME, in primis la crisi climatica, l’innalzamento delle temperature medie, la drastica e diffusa riduzione della biodiversità e la possibile sesta Grande Estinzione delle specie, non sono mutamenti passeggeri o relativi, ma hanno una forza epocale. La loro portata evidenzia che non siamo dentro una semplice, seppure grave, crisi ambientale, bensì di una trasformazione radicale determinata dal «nostro stesso modo di sviluppo, in quanto fondato sui combustibili fossili».

Secondo Chakrabarty, mai prima del momento che stiamo vivendo era accaduto che la storia umana si scontrasse con la storia terrestre, cioè che la storia del pianeta, inteso come la combinazione dei processi geologici, fisico-chimici e biologici che permettono la vita complessa sulla Terra, fosse modificata dalla storia del globo, quindi dalla storia fatta dagli esseri umani. Ora, coerentemente con quanto ha riconosciuto l’Antropocene Working Group dell’International Commission of Stratigraphy, «le nostre azioni sembrano determinare la stessa storia terrestre».

In altre parole, l’affermazione di una nuova era geologica chiamata Antropocene, dunque il divenire forza geologica da parte dell’umanità, sebbene secondo livelli di responsabilità differenziati al suo interno (non dimenticando, quindi, le diseguaglianze economico-sociali, politiche e militari a scala globale), significa che il modo di produrre e vivere degli esseri umani è arrivato ad un punto tale da potere incidere direttamente e costantemente sulla storia della Terra e non solo su quella umana.

È CON TALE DENSITÀ STORICA, ecologica e politica che il libro La sfida del cambiamento climatico. Globalizzazione e Antropocene, curato e introdotto da Girolamo De Michele e tradotto da Carlotta De Michele (ombre corte, pp. 167, euro 15), ci invita a entrare in relazione. Da leggere in maniera approfondita, il testo si confronta con una prospettiva di ecologia radicale che, nell’introduzione, De Michele presenta attraverso un’analisi ricchissima, nella quale si mette in evidenza la necessità per le società umane di operare un processo di decentramento, cioè «una critica radicale al capitalismo finanziario ed estrattivo» attraverso pratiche capaci di costruire una coscienza di specie.

Il libro è una raccolta di cinque saggi e due interviste scritti tra il 2012 e il 2020, successivi all’articolo del 2009 «Il clima della storia: quattro tesi», nel quale lo studioso indiano aveva organizzato il suo nuovo campo di ricerca, dopo essere diventato un punto di riferimento nel dibattito internazionale con il volume Provincializzare l’Europa, pubblicato in italiano nel 2004. In quell’articolo, Chakrabarty assumeva la categoria di Antropocene, come ipotesi di epoca geologica che viene dopo l’Olocene, senza rinunciare a riconoscere che essa non esclude il riferimento al concetto di Capitalocene (che mette più marcatamente in evidenza la critica ai rapporti di potere che lungo la storia del capitalismo hanno prodotto la crisi ecologica) elaborato da Jason W. Moore nell’ambito dell’approccio del’ecologia-mondo.

Il suo obiettivo, ribadito nei testi qui pubblicati, è quello di mettere in evidenza il divenire forza geologica della specie umana, capace, ormai, di potere incidere sul clima «per i millenni a venire». In altre parole, articolando analisi che già la tradizione materialistica aveva elaborato, compresa quella italiana di Machiavelli, Leopardi e Timpanaro, nell’epoca che stiamo vivendo si starebbe riducendo l’autonomia della natura rispetto all’umanità, anche se questa riduzione è in ogni caso relativa, in quanto «il cambiamento climatico planetario e l’Antropocene sono anche eventi guidati da vettori non umani, non viventi, che operano su scale multiple».

DI FRONTE a questo cambiamento radicale, nel quale la questione climatica ricopre una funzione centrale che ha a che vedere con la storia del capitalismo anche se non si può ridurre a essa, una politica che si ponga solo il problema delle emissioni di gas serra e della transizione verso le energie rinnovabili resta all’interno di una visione «umanocentrica», condannandosi a non vedere la crisi nella distribuzione della vita naturale riproduttiva dovuta al cambiamento climatico.

Questa visione sta anche influenzando il modo di comprendere e affrontare la pandemia in corso, nella quale il discorso pubblico dominante non vuole vedere l’azione combinata in atto di una molteplicità di crisi e, quindi, la necessità di cambiamenti da introdurre a diversi livelli (nella distribuzione internazionale della ricchezza, nel regime di mobilità delle persone, nel rapporto tra sistemi umani e sistemi non umani di vita), per cercare, invece, di ritornare ad una normalità pre-pandemia. Questo blocco conservatore si sta verificando nonostante le cause della pandemia abbiano definitivamente mostrato che «gli umani sono i più grandi agenti di devastazione dell’ambiente di questo pianeta», rendendo ancora più attuale l’urgenza, espressa nelle pagine conclusive del libro così come in quelle della prefazione di De Michele, di un’alternativa all’attuale organizzazione socio-ecologica capitalistica, che non si fondi più sulla distruzione o sul dominio «dell’ordine della vita sul pianeta».