Si arriva a Casalmaggiore tra le nebbie del mattino, dopo aver attraversato l’hinterland milanese, la periferia e la pianura con le osterie per camionisti lungo la Statale, i sexy shop, le discoteche, le balere, le cascine abbandonate, le fabbriche chiuse, quelle ancora funzionanti, quelle «Affittasi». Si sta in un panorama di suggestioni tra Luigi Ghirri, I Cammelli di Giuseppe Bertolucci, la ferocia dei Lometto di Busi, le pagine della Zenobia di Marco Tanzi. Qui, a Casalmaggiore, nel Museo cittadino ricavato dalla sua casa, è stata montata un’esposizione su Giuseppe Diotti (1779-1846), curata di Valter Rosa, aperta fino al 28 gennaio.
Pittore, professore dell’Accademia Carrara di Bergamo per oltre trent’anni, Diotti è tra gli ultimi interpreti lombardi delle istanze neoclassiche; tra i primi ad aprire la via all’epica nazionalistica che avrà il più giovane Francesco Hayez come maggiore interprete. La vicenda dell’artista si segue bene nella mostra, negli itinerari collaterali lungo l’asse Casalmaggiore-Cremona-Bergamo e nel libro che accompagna l’esposizione, più che un catalogo, una ricca monografia, anch’essa curata da Rosa ed edita dalla locale Biblioteca Mortara, in cui emergono i contesti, le tecniche, i tempi e i modi della sua pittura, grazie a una ramificazione di affondi davvero rara.
La formazione di Diotti avviene in un momento particolare: le soppressioni degli enti religiosi e le conseguenti, massive dispersioni di arredi e beni artistici a cavallo tra Sette e Ottocento innescano una coscienza del patrimonio che diventa anche consapevolezza civica. Diotti, partecipe delle ritualità laico-rivoluzionarie al momento della cacciata degli austriaci, legato più tardi a figure del cattolicesimo liberale, centrali per il Risorgimento, come Ferrante Aporti, non si spende solo politicamente nella causa nazionale, ma mette in gioco le possibilità del proprio lavoro, con una fede solida nella capacità educativa delle immagini. Da giovane artista in formazione copia i dipinti antichi conservati nelle chiese locali minacciati da requisizione o rovina – i Moncalvo, i Malosso… – e segue da vicino, da Parma dove frequenta l’Accademia, l’impennata del valore delle azioni di Correggio dopo la partenza della Madonna di San Gerolamo per Parigi.
Con queste basi, sulla sua educazione visiva neogreca tarata su David e Camuccini, impianta citazioni più o meno scoperte dall’antico che oggi si possono, spesso senza troppa difficoltà, decifrare sui suoi dipinti. Emergono le componenti raffaellesche, leonardesche, michelangiolesche, inculcategli dal maestro Giuseppe Bossi, e interessi figurativi vastissimi: la «realtà» cromatica di Guido Reni, i Carracci, il Cinquecento scoperto a Bergamo. Lotto, Moretto e Moroni, soprattutto, ma anche i primitivi come Benozzo Gozzoli, Filippo Lippi… per rispondere al montare delle idee nazarene. Al tramonto della civiltà dell’Illuminismo, Diotti cerca una propria alternativa espressiva nelle radici della tradizione pittorica locale, facendosi ideale anello di congiunzione tra Moroni e il Piccio, suo allievo. Fino alla singolare rivisitazione del luminismo caravaggesco nel suo momento «tenebrista», come lo ha definito Marco Rosci. Cioè quando le sue tele si allagano di ombre inquietanti, in un’eroicità protoromantica che trova paralleli nella dialettica intercorrente tra Géricault e Delacroix, e alimento nello studio degli effetti a lume di notte sui dipinti di Matthias Storm e di Gerrit van Honthorst, «il famoso Gherardo» che Diotti poteva studiare nelle collezioni bergamasche.
Oltre agli affondi sulla vita e sulla carriera del pittore, sono moltissime le informazioni utili al procedere degli studi che si compulsano dal catalogo: dalle indicazioni per i restauri dei dipinti antichi condivise con colleghi, studenti e collaboratori tra lezioni e sopraluoghi in mezza Lombardia, ai rapporti con i grandi mecenati come Paolo Tosio; dalla fortuna figurativa di Dante all’uso e alla divulgazione delle stampe tra amatori, artisti e collezionisti. In molte pieghe della storia raccontata in questo libro, soprattutto nella crisi e nell’amara marginalizzazione che mina la maturità dell’artista-professore, isolato in una fiera difesa a oltranza di un’ortodossia classica ormai superata, si sente ribollire la nascita di una modernità che – allora come oggi – fa pochi sconti, e tante vittime.
Quando, nel 1845, Diotti consegna all’Accademia Carrara l’Antigone condannata a morte da Creonte, dopo undici anni di un macchinare diligente tra bozzetti e cartone, la grande tela deve sembrare l’ultima fiammata, come il sipario, calato sulla sua intera esistenza. L’artista, «mortificatissimo», sconfitto, si è già ritirato da qualche tempo nella natale Casalmaggiore. Di lì a poco il quadro, così davidiano (e bossiano), così accademico, così evocativo di uno spirito che si sente fuori tempo massimo, nelle sale della Carrara è considerato come una testimonianza ingombrante. Il mutare del gusto ridimensiona così Diotti a piccola gloria locale. Una bocciatura simile cade in blocco, a inizio Novecento, su quasi tutta l’arte italiana del XIX secolo.
La riabilitazione dell’Ottocento avviene a partire dalle grandi mostre dagli anni settanta del secolo scorso. Si riscopre la grande pittura storica, più tardi la scultura, riconnettendo le testimonianze artistiche alla critica coeva, al melodramma, all’istituzione dei musei, alla nascita della tutela territoriale e del restauro moderno. Ovviamente non tutto è buono, non tutto è sullo stesso piano: Diotti non è Hayez, non è Canova, ma questo non significa che bisogna obbedire a un valore costruito. Cercare di indagare nella storia della propria comunità, pur con le risorse – e le difficoltà – di un museo o di una biblioteca di una piccola città come Casalmaggiore, significa continuare a credere che tra le mura dei nostri centri urbani, oltre ai campanilismi che sfociano in «difesa della razza», si possa ancora trovare qualcosa da aggiungere alla costruzione di una coscienza collettiva, per essere partecipi di un’idea di presente radicata nella concretezza di una memoria fisicamente percorsa, di una sedimentazione che si è fatta luogo.