«Siamo mattoncini personalizzati e deformati e non ci incastriamo su nessuna piattaforma», scrive Hiro, come a interpretare il disagio di una generazione che non si ritrova più negli schemi educativi e nelle rigide convenzioni sociali del proprio Paese, ma che non ha la forza – o la possibilità – di proporre un vero cambiamento.

Che qualche Dio odiasse il Giappone, già si sapeva. Nel 2000, undici anni prima dello spaventoso terremoto di Fukushima, Douglas Coupland, scrittore canadese del 61, aveva già paventato l’idea. Aveva infatti creato, con l’animatore Mike Howatson, canadese anche lui, un romanzo illustrato intitolato proprio Kami wa Nihon wo nikunderu (Dio odia il Giappone). Nel 2001 il lavoro fu pubblicato esclusivamente in giapponese da una casa editrice di Tokyo e adattato in formato digitale per la tecnologia cellulare nipponica. La storia è semplice. Hiro, narratore e protagonista del romanzo, è un ragazzo giapponese nato nel 1975, un prodotto del secondo baby boom dal dopoguerra. Hiro non ha nessuna qualità in particolare, solo una strana passione per le vetrine – contro cui adora buttarsi con tutta la forza che ha – e l’anime Star Blazers.

Fallisce gli esami finali di scuola superiore, cruciali per l’accesso alle università migliori, e per tutti gli anni Novanta si giostra continuamente tra lavoretti precari e delusioni amorose. Finché decide insieme al suo amico Tetsu di andarsene dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, in Canada, per convincere Naomi, la sorella di Tetsu andata tempo prima a Vancouver a «studiare inglese», a ritornare a casa. La «storia semplice» del narratore si intreccia con quella del Giappone di quegli anni. Hiro è il rappresentante di una generazione particolare, quella che per prima, dopo anni di crescita economica esponenziale, si è trovata ad affrontare una condizione lavorativa sconosciuta fino ad allora. Sono i primi anni del precariato, anche per i laureati dalle Università più prestigiose. Ne è un esempio il personaggio di Tetsu, studente fuori corso di economia alla blasonata Università di Tokyo. Professione: barista.

Non è un caso che sia Coupland a descrivere il disagio di un’intera generazione, in Dio odia il Giappone. Il tema gli è infatti caro sin dagli esordi: nel 1991 con il romanzo Generazione X, dedicato ai figli dell’America degli anni Sessanta, era riuscito a costruire un moderno Decameron collezionando storie che riflettessero lo spirito della propria generazione. La spinta all’opera nasceva dalla volontà di affrancarsi da “stupide etichette” e dalla stanchezza di «sentirsi descrivere da altri». Così facendo, però, Coupland finì inevitabilmente per creare altre di etichette. Una su tutte: generazione X. Da semplice segno grafico la X diventa simbolo, anche grazie a Coupland, di smarrimento, depressione, assenza di punti di riferimento. La stessa condizione dei ventenni americani a cavallo tra anni ‘80 e ‘90 la ritroviamo negli appartenenti alla dankai juniaa (questo il nome istituzionale della generazione dei nati nella prima metà degli anni ’70), che si ritrovano a vivere il passaggio all’età adulta durante il «decennio perduto» del Giappone. Ne nasce quindi una nuova generazione X, o, come scrive lo stesso Coupland, una «non-generazione».

Douglas Coupland
Dio odia il Giappone
ISBN Edizioni