Solitario, solenne, dorato, ieratico e sereno, uno dei suoi cardinali apre la mostra che la Estorick Collection di Londra, in collaborazione con la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, ora gli dedica: Giacomo Manzù: Sculptor and Draughtsman (fino al 3 aprile; catalogo £12.95). Influenzato, sembra, tanto dalla profondità di Auguste Rodin quanto dalla nitidezza di Aristide Maillol, Manzù è sempre rimasto pericolosamente in bilico: tra Donatello e Medardo Rosso, purezza della forma e ricerca espressiva, fascinazione dell’antico e urgenza del contemporaneo. In origine quasi autodidatta, ma infine professore (a Brera, all’Accademia Albertina di Torino, alla Sommerakademie di Salisburgo), la sua parabola di figlio di sacrestano arrivato a realizzare la maschera funebre del papa (Giovanni XXIII, suo conterraneo e amico) sembra iscriverlo totalmente sotto il segno dell’arte sacra. A lui si devono, infatti, tante porte di chiese: la Porta della Morte della Basilica di San Pietro, la Porta dell’Amore per il Duomo di Salisburgo e la Porta della Pace e della Guerra per la chiesa di Saint Laurens a Rotterdam. Levigato, ma vibratile, ancora naturalista, ma alla ricerca della forma pura, essenziale e insieme ascetico, il suo stiacciato sembra davvero lambire il confine tra la terra e il cielo.
Eppure non fu solo scultore, e soprattutto non fu solo artista religioso: questo è l’assunto della mostra, che affianca alle sculture (poche ma significative) i meno noti disegni, quasi tutti caratterizzati dal lavoro sul corpo, che si riverbera malleabile e volumetrico nei suoi carboncini. Il trionfo del nudo, fino a vari sguardi da dietro, metterebbe in crisi i suoi cardinali, se non fossero proprio i cardinali i più sensibili padroni del corpo. Sotto i manti straordinariamente lisci c’è infatti materia anziché vuoto, a suggerire che la sacralità non è immune dalla pesantezza; meno pesanti sono invece proprio i nudi, che la materia l’esibiscono anziché nasconderla: perciò portano con sé carnalità ed eleganza, intimità e compostezza, passione e controllo. Ossimori, evidentemente, perché Manzù è fenomenale nell’evitare i grigi, le pieghe, i rigagnoli: da artigiano, esplora sempre il rapporto tra il materiale che lavora, plasmandolo, e la forma che genera, attuandola. Negli abbracci, corpi aggrovigliati che si fondono, sta la sintesi tra lo scultore che spiana e il disegnatore che concentra: il caos trova sempre forma, senza perdere la sua origine di caos, ma senza combattere la sua resa alla linea che delimita e al corpo che contiene. Ha attraversato un secolo (1908-1991) senza subire mode e cercare protagonismi, assiduo e assorto, singolarmente continuo nella sua attività. C’è chi lo sposta in avanti, verso l’astrattismo, verso Henry Moore (con cui condivise il primo premio alla XXIV Biennale di Venezia, nel 1948), e chi lo radica all’indietro, tornando al cubismo, a Picasso e Lipchitz; ma serve a poco apparentarlo e classificarlo.
La sua costellazione relazionale va da Aligi Sassu, con cui divise lo studio agli esordi, negli anni trenta, a Marino Marini ed Emilio Greco, che gli siedono accanto nel pantheon della scultura italiana del ventesimo secolo, ma la verità è che fu sempre un operaio, grandissimo lavoratore, estraneo a ismi e teorie, craftsman e basta. Di qui il suo sodalizio, tutto terreno, con Papa Roncalli; di qui il suo impegno artistico, fatto di dedizione e attivismo; di qui la sua energia, che è forza delle mani e polvere di laboratorio. Questa mostra, che lo riporta a Londra dopo gli anni sessanta, quando espose per un mese alla Tate Gallery col titolo non troppo dissimile di Sculpture and drawings, costituisce un eccezionale ingresso nel suo studio, dove le opere sono ancora in fieri, prima del destino museale o commerciale che loro compete quando hanno successo (qualche anno fa, da Christie’s, un suo Cardinale seduto di due metri e mezzo ha battuto 482.500 dollari): in fieri, dicevamo, perché l’articolazione della mostra, che riempie tutti gli spazi, alternando disegni alle pareti e sculture nel mezzo, fa sì che si veda più il rapporto che l’artista aveva col suo lavoro che l’opera singola da ammirare e scrutare. È l’insieme a contare, insomma: non la ricerca del capolavoro, ma l’impressione, fabbrile, e febbrile, del continuo produrre di chi ama ciò che fa e gli affida il senso stesso della sua vita. «Amare senza risposta è l’eternità», si legge dietro uno dei suoi disegni, in una mistica dell’abnegazione e della consacrazione che è probabilmente il suo vero lascito artistico. I visitatori potranno sentire le mani nodose del muratore sul bronzo dei corpi distesi e il tratto deciso del falegname sulla carta dei suoi disegni.
È tutto umano, infine, l’artista che viene fuori dalla mostra: i cardinali la punteggiano, ma alla fine sembrano più un leitmotiv decorativo che il vero centro. Rimangono davvero soli, ciascuno chiuso in se stesso, come in una danza di dervisci che restano prigionieri della loro veste a caduta conica. Tutt’intorno ci sono corpi nudi o seminudi, fino a uno spogliarello che appena comincia e a un abbraccio in un groviglio avviluppato, entrambi in bronzo. Due ritratti femminili di spalle, a natiche scoperte, e la passione per le donne con le gambe accavallate, quasi sempre distese sulla schiena, rivelano l’interesse per le zone dove il corpo si definisce, esaltando le forme e rendendole attraenti: né mistico né erotico, tuttavia, l’effetto è soprattutto estetico, apprezzamento e studio, osservazione del bello e produzione di bello. Se un’estetica c’è, infatti, è proprio nella gioia del fare: godimento puro dell’occhio e della mano, contatto con la materia ed espansione della vita. «L’ispirazione va bene per le signorine, non per gli uomini», disse in un’intervista Rai con Franco Simongini del 1988 (la si trova online), rifiutando la grazia a favore della natura, nell’attesa di una rivelazione che è sempre imminente e mai si produce.
C’è una donna alla scrivania, sua figlia Inge, in veste da camera con una penna in mano e un foglio sul tavolo, in un disegno a matita e carboncino del 1972: intimità, raccoglimento e serietà sembrano ritagliare un’altra via rispetto alla mistica dell’arte religiosa e alla fisicità dei corpi nudi. Non di un’altra via si tratta, però: è sempre la stessa, la sua via, quella dell’artista che trova il sacro nel gesto quotidiano che manifesta una presenza nella sua volontà di fare, nel suo poter e saper fare. È un autoritratto spirituale, questo: la scelta di dedicare la vita a qualcosa il cui senso sta nella gioia di farlo. Essere al mondo, incontrando continuamente l’altro nell’atto di produrre indefinitamente qualcosa per il piacere reciproco di godere del nuovo oggetto che è venuto alla luce: usando la riflessione di chi più di tutti nel Novecento ha pensato la dimensione estetica della fatica, il dolore e la gioia del donarsi, Simone Weil (cui è accomunato dal ricorso al Cristo per rifiutare la violenza del fascismo e della guerra con le opere della Crocifissione e della Deposizione negli anni trenta, poi riunite sotto il titolo di Cristo nella nostra umanità), quella Simone Weil che invitava ad «amare il bene attraverso le cose di quaggiù» e suggeriva che «il bello è la prova sperimentale che l’Incarnazione è possibile», pure i cardinali, con quel corpo pesante sotto alla tunica, potranno tornare religiosi e Manzù potrà essere capito meglio.