Le compagini orchestrali di Dino Betti van der Noot sono creature che vivono essenzialmente in studio di incisione, e solo in rarissime occasioni dal vivo: tra queste le due serate offerte il 22 e 23 marzo dallo Spazio Teatro NO’HMA Teresa Pomodoro sotto l’intestazione Où sont les notes d’antan?, titolo del prossimo cd del compositore, in corso di registrazione. Come già altri negli anni ottanta, gli ultimi due album di Dino Betti, The Stuff Dreams Are Made On e Notes Are But the Wind, del 2013 e 2015, sono risultati vincitori per la categoria “disco italiano dell’anno” nel referendum del mensile Musica Jazz.

Ottant’anni computi lo scorso anno e portati invidiabilmente, Betti di mestiere è stato un pubblicitario di successo, e parallelamente ha portato avanti la sua passione per il jazz, realizzando una decina di album largamente apprezzati per la freschezza, l’originalità delle idee, la non convenzionalità delle soluzioni con cui il musicista ha declinato la dimensione orchestrale. Tra la messa a punto di un risultato in sala di registrazione e la resa dal vivo di un’orchestra per la quale essere riunita in concerto è l’eccezione e non la regola c’è una differenza non facile da superare, a maggior ragione se l’organico è decisamente ampio, ventuno elementi (citiamo Alberto Mandarini e Gianpiero LoBello fra le trombe, Luca Begonia fra i tromboni, Sandro Cerino e Giulio Visibelli fra i sax, Emanuele Parrini al violino, Vincenzo Zitello all’arpa, Niccolò Cattaneo al piano, Luca Gusella al vibrafono, Gianluca Alberti al basso elettrico, Stefano Bertoli e Tiziano Tononi alla batteria e alle percussioni), e se il tempo per le prove è risicatissimo. Un’impresa portata a termine con qualche inevitabile (nella prima serata) ma trascurabile inciampo e con pienissimo successo.

Betti ha tanto il senso per il drive e l’impatto orchestrale di chi si è formato su big band dei tempi della propria giovinezza come quelle di Stan Kenton e Woody Herman, quanto un sofisticato gusto per la rarefazione e le atmosfere sottili, registri diversi che riesce a sposare efficacemente nei propri brani, con una grande capacità di sospendere le situazioni e di tenerle aperte: un trascinante blues pieno di accesi assoli dei fiati si risolve con naturalezza in un delicato intervento dell’arpa e poi in una sognante combinazione del piano e del vibrafono, per poi ripartire di colpo come se non si fosse mai fermato.

Tra le “note di una volta” che Betti vuole fare rivivere, quelle del canto delle mondine Sciur padrun da li beli braghi bianchi: niente affatto richiamato pedissequamente, invece trasfigurato in un mutare di stati d’animo, dall’epico all’ironico al malinconico, in un brano pieno di movimento ma anche poetico, commovente, come del resto Velvet Is the Song of Drums, con il suo delicato clima iniziale, la raffinatezza del tema, i begli impasti timbrici. C’è una eleganza molto “italiana”, nei brani di Betti. E una forza evocativa che fa pensare a scene di film immaginari. Musicisti tutti bravissimi, ma sia consentita una menzione particolare per Emanuele Parrini, che con interventi anche minimi col suo violino ha sempre dato un tocco che ha fatto la differenza.